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7 mar 2022

[Recensione] Harmony - La trilogia di Project Itoh, pt. 3

(<harmony/> ハーモニー, 2015)
 

A chiudere il trittico di opere animate ispirate ai romanzi di Project Itoh, dopo L'Impero dei Cadaveri e L'Organo Genocida, parlo di <harmony/>,  il secondo in ordine di pubblicazione sia come film che come libro. Del resto, in un trittico non è forse la parte centrale quella più importante, quella che lega e arricchisce di senso le due ali? 

Mezzo secolo dopo il Grande Cataclisma nucleare che ha sconvolto il mondo, le civiltà avanzate stanno cercando di costruire una società totalmente sanitizzata, in cui ogni essere umano sia costantemente monitorato da un impianto cibernetico iperconnesso che ne segue lo stato psicofisico per garantirne la salute. Come risultato, la malattia e persino la vecchiaia sono stati quasi sradicati dal Giappone, ma insieme a loro è sparita l'autonomia dell'individuo sul proprio corpo e sul proprio egoismo.
Kirie Tuan è un'ispettrice dell'OMS (che l'adattamento italiano si ostina a tradurre come Daboliù Eic Oh, come se non fosse un'organo realmente esistente, ma tralasciamo), reduce di un tentativo di suicidio di gruppo in gioventù nel quale morì la sua """""""""""""""amica
""""""""""""""" Miach Mihie. Tuan, come Miach prima di lei, si oppone a questo mondo e cerca di ritagliacisi degli spazi di autonomia. Un giorno, però, richiamata nel suo odiato Giappone, assiste a un evento traumatico: migliaia di persone, di punto in bianco, si suicidano tutte insieme. L'OMS si prende in carico l'indagine su quale falla del sistema informatico sia stata usata per commettere questo atto, ma per Tuan essa altro non è che un modo per risalire alla verità su Miach e sul misterioso progetto "Harmony".

Fra cospirazioni e gruppi segreti, quello che emerge è un curioso misto fra Demolition Man, Evangelion, Psycho-Pass e Deus Ex che riesce ad essere intrigante da morire pur non avendo una sola idea originale in corpo. Innanzitutto perché la regia è ottima: nonostante un'animazione a tratti martoriata da un abuso di CGI, riesce a trasmettere un senso di malinconia opprimente ed onnipresente che ben rispecchia lo stato d'animo della protagonista, e a rendere la storia fra Miach e Tuan tanto inquietante quanto sorprendentemente dolce. Una nota di merito, qui, va anche al doppiaggio italiano, che sulle due protagoniste è perfettamente on point. In secondo luogo, grazie al setting, che dietro all'apparenza di essere semplicemente una versione sanitaria del surveillance state americano delinea invece una critica spietata della società giapponese: gentilezza e cortesia come ragione d'essere, completa dedizione all'umano come essere comunitario a totale scapito dell'individuo, alto tasso di suicidi da parte di giovani che, piuttosto che vedersi sottratte la propria individualità e il proprio stesso corpo da una società "iper-gentile", si tolgono la vita appena prima di raggiungere l'età adulta, fintanto cioè che «il nostro corpo è solo nostro, e noi siamo solo noi».

L'avanzare della trama non è privo di forzature e accelerazioni indebite, si sente in molti punti un tragico bisogno di approfondimento della psicologia dei personaggi (dovuto, chissà, più all'adattamento che al materiale di partenza?), ma ciò nonostante proprio le due protagoniste riescono a reggere la storia con il loro carisma e con il mistero sulle loro motivazioni. C'è molta creatività nel design del mondo (scelta interessante il fatto che sia tutto rosa e fatto di forme arrotondate, dando agli edifici un'aria un po' a metà fra casa delle Barbie e dei dildo giganti) e dei personaggi, anche laddove non ce n'è nella trama. A quest'ultima, però, devo dar credito per il coraggio di essere andata fino in fondo con il decadimento apocalittico del mondo, fino a un finale che, dopo un momento prevedibile nella sua tragicità ma perfettamente sensato dal punto di vista emotivo, oserei definire "uno Human Instrumentality Project che non ha smesso di crederci".

Il motivo per cui ho trattato il film "di mezzo" come conclusione della trilogia di Project Itoh è che, curiosamente, secondo me funziona perfettamente come terza visione della trilogia, in quanto costituisce un punto d'incontro e di raccordo fra i nuclei tematici degli altri due:

  • Come Cadaveri, ha come motore dell'azione dei protagonisti un amore omosessuale (più esplicito qui). 
  • Come Organo, è ambientato in un mondo che ha elaborato una soluzione estrema come reazione a un periodo di terrore e morte.
  • Come Cadaveri, ha come fulcro della cospirazione dietro le quinte un progetto per  
  • Come Organo, ha come aspetto fantascientifico del suddetto piano un meccanismo di manipolazione del cervello che si basa sul potere del linguaggio e di altri meccanismi neurologici innati. 
  • Come Cadaveri, ragiona su dove sia l'essenza naturale dell'uomo in un mondo in cui la tecnologia progredisce sempre più in profondità nel suo stesso corpo. 
  • Come Organo, presenta una estremizzazione trans-umana di un aspetto di una società avanzata (individualismo, consumismo e sorveglianza negli Stati Uniti; comunitarismo, salute e dedizione al dovere in Giappone) e la mette in contrasto con la situazione in società meno ricche. 
  • Come entrambi, si chiede quale prezzo si sia disposti a pagare per la pace della propria società, quali libertà si sia disposti a sacrificare per averne in cambio altre. 
  • Come entrambi, ha Akio Ootsuka in una particina di poche battute, e qualcuno 'sta cosa me la dovrà spiegare prima o poi. 
  • Come entrambi, ha il character design di Redjuice (qui lasciato totalmente a briglia sciolta) e la canzone finale melensa degli Egoist MALEDETTI SUPERCELL QUESTI ERANO GLI ULTIMI ANNI DEL VOSTRO REGNO DI TERRORE

OK, adesso che il discorso sui film è concluso, forse è il momento di spiegare questo mio rapporto di odio-amore con i supercell e gli Egoist in particolare. Vedete, i supercell sono un gruppo originariamente indie di vari artisti, che da un certo punto della loro carriera sono esplosi avendo trovato la propria nicchia di successo nel mettere mano in anime pretenziosi che si credono di essere molto più di quanto sono in realtà, a partire da Bakemonogatari. (Ché se il genere "anime pretenziosi che nascondono un contenuto di fanservice insignificante dietro una facciata di dialoghi verbosi e regia ultra-ricercata" fosse una pagina Facebook, Bakemonogatari ne sarebbe l'immagine di profilo e di copertina.) Poi, in Guilty Crown: l'anime che a un certo punto ha conquistato il mondo degli otaku zuenotti dei primi anni '10, pubblicizzato e glorificato ovunque anche se era un collage raffazzonato di idee copiate male da Evangelion e da Code Geass, prima di sparire nell'abisso del dimenticatoio della storia da cui non sarebbe mai dovuto uscire. Anime che io all'epoca fui costretto a guardare fino alla fine anche se mi faceva cagare perché scrivevo recensioni per un sito (poi, fortunatamente, defunto). 

Ebbene, gli Egoist erano un gruppo musicale fittizio all'interno del suddetto collage raffazzonato di idee copiate male. Un gruppo che, chiariamoci, non aveva la minima ragione di esistere all'interno di quella storia (Inori, la cantante, data la sua backstory, non avrebbe avuto alcun motivo di farne parte), e che viene giusto nominato tipo tre volte nella prima puntata e basta. Eppure, Ryo dei supercell e 'sta cazzo di cantante ragazzina giovanissima che piagnucola nel microfono, con le loro canzoni tutte uguali, hanno continuato a usare quel nome lì come "progetto parallelo" da quel momento in avanti, specializzato in sigle di animepretenziosichecredonodiesseremoltodipiùdiquantosiano, continuando così a ricordare al mondo e a me in particolare dell'esistenza di Guilty Crown in quello che, per circa mezzo decennio, sembrò al sottoscritto un onnipresente impero del male, che mi trovavo davanti in continuazione.

E questo era l'odio.

L'amore è che quelle canzoni mi piacciono. Mi piacciono pure parecchio. Kimi no shiranai monogatari mi ha accompagnato tanto in un brutto periodo della mia vita, e se dicessi che non mi ha fatto piangere mentirei spudoratamente.. La cantante (sia Koeda, che si unì al gruppo quando aveva solo 15 anni, sia Chelly, la seconda metà degli Egoist) ha un range e un'espressività emotiva davvero incredibili. Ryo, il compositore principale, ha uno stile immediatamente riconoscibile anche se molto ripetitivo. Il character design di redjuice, anche se è tipo la cosa più anime-in-senso-cattivo che abbia mai visto (come cazzo si vestono Inori e Tuan, seriamente?), è almeno uno dei pochi rivoli sprizzanti in un periodo di siccità creativa. In nuce, rappresentano per me quello che l'universo cinematografico Marvel rappresenta per il cinema: il trionfo di una banalità assoluta, ripetitiva, commerciale, confusionaria eppure con un'identità ben precisa, che permea tutto ciò che una volta amavi con una versione esagerata e sintetica di quelle stesse emozioni che una volta ti dava, che si prende e si fa prendere decisamente troppo sul serio, ma che pur è fatta talmente bene, dal punto di vista tecnico e del talento che vi è coinvolto, che non riesce a non prenderti; che puoi parlarne male quanto vuoi, ma ti piace, e ti continuerà a piacere.

Quindi sì, lo ammetto. Tutte e tre le canzoni di chiusura della trilogia di Project Itoh sono molto belle. Anche se sono perfettamente identiche a qualunque altra canzone degli Egoist.

 
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. 
Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
 

28 feb 2022

[Recensione] L'Organo Genocida - La trilogia di Project Itoh, pt. 2

(虐殺器官 Gyakusatsu kikan, 2017)

La scorsa volta ho parlato del primo dei tre film tratti dai principali romanzi del defunto Project Itoh. Questa volta, vorrei osare andare fuori ordine e, voltandomi alla sinistra del trittico, parlare invece del terzo film, L'Organo Genocida appunto, l'ultimo ad uscire dopo un travagliato palleggio della produzione fra Manglobe e Geno Studio. Curiosamente, questo ultimo film è tratto dalla sua opera prima: una storia di spionaggio sci-fi situata ad affascinante punto d'incontro fra la linguistica chomskiana, quel film con Nicolas Cage che fa il trafficante d'armi, e tutta una serie di robe prese di peso da Metal Gear Solid. E risulta non solo più emozionante, ma anche tematicamente molto più pregnante.

In un mondo sconvolto prima dagli attentati del 2001 alle Torri Gemelle e poi dalla distruzione di Sarajevo con una bomba nucleare nel 2015, le nazioni occidentali vivono libere dalla minaccia e dalla paura del terrorismo grazie ad un surveillance state onnipresente, che utilizza avanzati sistemi informatici di identificazione individuale e un diffuso sistema di propaganda (l'ho già detto che Itoh era molto amico di Hideo Kojima fin dal 1998?). Nello stesso momento, però, nelle nazioni povere sembra essere scoppiata una vera e propria epidemia di guerre civili (l'ho detto che Itoh ha cominciato scrivendo fanfiction di Metal Gear Solid?). A Shepard, un soldato di un'unità informativa del Pentagono costituita da super-soldati condizionati per sopprimere le emozioni in battaglia (l'ho già detto che Itoh ha scritto anche la novellizzazione di Metal Gear Solid 4?), è affidato l'incarico di catturare John Paul, una misteriosa figura che sembra essere dietro a tutti questi genocidi.

Quel che segue è un balletto fra scene d'azione splendidamente animate e dialoghi filosofici sulla natura dell'uomo, dei conflitti e della libertà, dal quale emerge un nucleo tematico sorprendentemente ricco e pregnante. Oso dire, ancora più pregnante oggi che nel 2007, quando fu scritto (l'ho già detto che Itoh e Kojima erano talmente amici che Kojima sfidò gli ordini della Konami pur di fargli avere in anteprima informazioni su Metal Gear Solid 2, visto che sembrava che Itoh potesse non sopravvivere abbastanza per vederlo?).

La storia procede spedita, con una regia tutt'altro che banale ma sempre chiara. Le scene d'azione hanno quel perfetto tono di impietosa violenza (quasi gore, a tratti) ma di fredda "professionalità", tali da essere coinvolgenti senza glorificarsi, ma anzi trattando anche i momenti più disturbanti, come lo sterminio di una squadra di bambini-soldato (l'ho già detto Itoh ci teneva così tanto a Metal Gear Solid che Kojima gli mandava notizie sullo sviluppo di Peace Walker, quand'era ormai in punto di morte? E che Peace Walker è stato dedicato a lui?), con la stessa assoluta neutralità con cui li trattano i soldati stessi. Ed è proprio nel contrappunto fra la fredda nonchalance delle scene belliche e spionaggistiche e l'intensa brutalità verbale dei dialoghi filosofici che, a mio avviso, nasce l'aspetto più interessante del film, come emerge da una manciata di scene.

In primis, la scena in cui Shepard incontra un gruppo ribelle di Praga, il cui leader gli fa un discorso assolutamente sensato sul fatto che la libertà sia un continuo scambio fra libertà opposte (oh ma guarda un po'...) e che la sicurezza del mondo occidentale sia basata sul nascondere gli orrori che vengono perpetrati altrove per garantirne la prosperità, chiamando in causa non solo l'intero sistema dell'informazione borghese ma anche l'intero sistema del capitalismo globalizzato.

Poi, il filone per cui, partendo dalla teoria di Chomsky per cui ci debba essere un elemento organico nel cervello umano naturalmente dedicato alla formazione del linguaggio, si ipotizza una sorta di "grammatica universale" capace di influenzare in maniera primigenea gli esseri umani ad abbandonare le restrizioni di tipo etico, e che possa quindi essere usata per spingere interi popoli a giustificare l'odio, la violenza, persino il genocidio. Tema, questo, che si riconnette non solo all'ascesa degli orrori dittatoriali del XX secolo, ma anche (decisamente più in piccolo) a quello dei populismi di stampo trumpiano\salviniano\berlusconiano\renziano\putiniano\orbaniano, che proprio tramite il linguaggio, la scelta (spesso perfettamente deliberata) della grammatica prima ancora che il contenuto delle parole, influenzano interi popoli. Questo filone tematico contiene alcune inesattezze storiche nel film, ad esempio nel suo classificare le stragi staliniane e l'Holomodor come "genocidi", ma tralasciamo.

Infine, l'amara considerazione che le motivazioni del villain,  al netto delle esagerazioni ovvie in un'opera di finzione, non sono poi così diverse da quanto il mondo capitalista-imperialista fa realmente, oggi come ieri. L'idea del villain di "sacrificare" intere nazioni povere in un susseguirsi di guerre civili in modo che le tensioni di coloro che sono esclusi dalla prosperità occidentale si sfoghino lì, lontano da quel modo di vivere reso sicuro al caro prezzo del sacrificio di così tante libertà, allo scopo di salvaguardarlo dal terrorismo e dal conflitto.

Chiudo con una nota riguardo il comparto audio, che vanta la presenza di Takahiro Sakurai (non potevi che essere tu il villain, appena ho visto il design del personaggio già sentivo la tua voce <3) e di Yuki Kaji, evidentemente complice della canzone finale degli Egoist e del chara design di Redjuice nel ricordarmi dell'esistenza di Guilty Crown. Un doppiatore bravissimo per sempre rovinato, nella mia mente, dall'essere associato ad uno degli anime che più odio. Infine, degno di nota anche il cameo (di nuovo) di Akio Ootsuka, voce storica di Solid Snake. L'ho già detto che a Itoh Metal Gear Solid piaceva veramente tanto?

Immagine reale del sottoscritto che riconosce gli Egoist nella sigla finale.

21 feb 2022

[Recensione] L'Impero dei Cadaveri - La trilogia di Project Itoh, pt. 1

Il romanziere giapponese Satoshi Itō, famoso col bizzarro nome d'arte di Project Itoh, è quel tipo di scrittore la cui stessa vita sembra fatta apposta per essere rappresentata su un palcoscenico. La sua carriera letteraria, stroncata nel 2009 da un tumore combattuto a lungo, era iniziata davvero solo nel 2006, quando era già malato, ma la manciata di romanzi fantascientifici di cui è stato autore (insieme a essay, recensioni e storie brevi) gli sono bastati ad assurgere ad uno dei nomi più amati del panorama contemporaneo nipponico. Amico di lunga data del game designer il Maestro Hideo Kojima, fra le sue opere si annovera anche la novellizzazione di Metal Gear Solid 4.

All'inizio degli anni '10, il blocco di programmazione noitaminA promosse la realizzazione di una trilogia di film anime basati sui suoi romanzi principali. Più che una trilogia, un trittico, in quanto le tre opere sono del tutto slegate fra loro ma, messe fianco a fianco col beneficio del senno di poi, costituiscono un interessante quadro complessivo nel quale un gioco di rimandi e analogie fa emergere una serie di fili tematici totalmente diversi nell'esecuzione ma sorprendentemente simili nelle riflessioni che sembrano voler indurre, e che quindi riescono a tracciare un tutt'uno sorprendentemente completo della poetica del defunto scrittore.

(屍者の帝国 Shisha no teikoku, 2015)

Il primo di questi film, che mi piace immaginare sul lato destro del trittico, L'Impero dei Cadaveri appunto, è ironicamente tratto dal suo ultimo romanzo, completato e pubblicato postumo. Si nota, in effetti, l'esame di un tema probabilmente molto "vicino" a una persona che sa essere ormai prossima alla morte, accompagnato da una profonda malinconia sottostante. La cosa che per prima salta all'occhio di questa storia gotica-cyberpunk, però, è come la stragrande maggioranza dei suoi elementi sia in realtà presa di peso dalla letteratura e dalla storia ottocentesca: in un passato alternativo in cui gli studi del dottor Victor Frankenstein (sì, quel Frankenstein) hanno permesso la diffusione su scala globale di una tecnologia in grado di rianimare i cadaveri, sostituendo i "ventuno grammi dell'anima" con un elemento artificiale, il benessere del mondo occidentale è ormai interamente basato sul lavoro di questi "zombie", che non possiedono ragione, linguaggio o alcun ricordo della loro vita ma si prestano perfettamente ad essere usati come lavoratori e soldati. A Londra, lo studente di medicina John Watson (sì, lui) sta conducendo ricerche illegali per replicare il successo di "The One", la creatura di Frankenstein, l'unico cadavere rianimato ad avere un'anima, allo scopo di resuscitare Friday, il suo """"""""""""""""amico""""""""""""""" ricercatore recentemente scomparso. Le sue ricerche attirano l'attenzione dei servizi segreti inglesi e del loro capo, il misterioso "M" (la cui segretaria sta in un ufficio identico a quello di Moneypenny e si chiama Moneypenny stando ai titoli di coda, e voglio sia messo a verbale che guardando il film ho colto la citazione ben prima che la esplicitassero), che lo recluta per mandarlo in Afghanistan a recuperare quella che è al tempo stesso la chiave per le sue ricerche e un oggetto dal valore geopolitico infinito: gli appunti originali di Frankenstein, recentemente rubati dallo scienziato russo Karamazov

Con l'aiuto della guardia del corpo Burnaby, da qui parte un roller coaster di azione, avventura, discorsi filosofici e un po' di gore che porta Watson, Burnaby, Friday e la bella Hadaly Lilith (un ginoide inventato da Thomas Edison che poi si farà chiamare Irene Adler, per qualche motivo) in giro per il mondo per sventare due opposte cospirazioni.

OK, giusto per completare il quadro e perché non riesco più a prendere la cosa sul serio, interrompo la sinossi per elencare l'insieme di altri nomi noti che per ragioni a me totalmente incomprensibili cicciano fuori per tutta la durata del film: l'ex presidente americano Ulysses Grant, il generale giapponese Seigo Yamazawa, la compagnia chimica Osato, la macchina analitica di Babbage, Sherlock Holmes, e letteralmente il Nautilus. Sarò perfettamente sincero, non riesco proprio a capire il senso di questo potpourri di figure storiche e letterarie della letteratura inglese ottocentesca, perché non mi sembra aggiungere nulla tematicamente né contestualmente e anzi l'ho trovato un'inutile distrazione (e un inutile ricordo dell'esistenza di League of Extraordinary Gentlemen). Forse perché il richiamo iniziale a Frankenstein ha richiesto di rendere anche altre figure letterarie "reali" in quell'universo? Non lo so. Però boh, va bene così immagino.

Dicevo, il roller coaster. Un roller coaster che funziona bene momento-per-momento, anche grazie ad un'animazione di altissimo livello da parte del Wit Studio e un cast di doppiatori eccellente sia in giapponese (Kana Hanazawa, Daiki Yamashita, un cameo di Akio Ootsuka) che in italiano (Pietro Biondi, Gianfranco Miranda). Palleggia con maestria scene d'azione avvincenti, momenti di inquietudine gotica, la suspanse per il disvelarsi progressivo dell'intreccio, e anche l'aspetto emotivo-sentimentale su Watson, Friday e Hadaly: alcune scene di Friday, in particolare, sono semplicemente strazianti, e se lo spettatore le collega anche all'idea che sono state scritte da un uomo conscio di essere prossimo alla fine dalla propria vita assumono un peso ancora maggiore. Ah, l'ho già detto che il legame omosessuale fra Watson e Friday è letteralmente a una parola dall'essere esplicito?

Ma pecca di una certa incoerenza tematica e di più di un salto logico che mette a repentaglio la sospensione d'incredulità. Soprattutto dal momento in cui l'aspetto fantascientifico\cyberpunk (con un vago elemento di misticismo) viene totalmente abbandonato, in favore di elementi di pura magia senza spiegazioni, in una serie di sequenze e di elementi visivi che sembrano presi di peso da Guilty Crown (un anime che al solo nominarlo mi triggera reazioni istintive di fastidio e odio). Chissà, forse questo dipende dal fatto che il romanzo sia stato completato da Enjō dopo la morte di Itoh, che potrebbe non aver colto appieno le intenzioni dell'autore originale. Oppure, a me piace pensare che, almeno dal punto di vista estetico, un po' di colpa ce l'abbia il coinvolgimento dei Supercell (in questo come negli altri due film), con redjuice al character design e i cazzo di Egoist alla canzone finale

(Ah, i Supercell! I miei vecchi arcinemici! Dio benedica la fine del loro dominio di terrore sul mondo degli anime pretenziosi!)

Voglio essere del tutto sincero su questo film. Non ho capito alcuni sviluppi di trama. Non ho capito in che modo dovrebbero funzionare i piani dei villain. Non ho capito che diamine cercassero di fare i fratelli Karamazov. Non ho capito perché a un certo punto siano usciti i cristalli di Guilty Crown da tutte le parti. Non ho apprezzato la piccolezza quasi meschina delle motivazioni di alcuni personaggi. Tuttavia, mi sembra di cogliere, nell'abuso della tecnologia dei cadaveri come base dell'economia globale, un riferimento al colonialismo e/o a quelle dinamiche di sfruttamento che, oltre a costituire il prezzo del benessere del mondo moderno, ne sono anche il principale punto di fragilità; ma il tema sembra buttato lì, superificiale, e sospetto di essere solo io a vedercelo.

Propone anche, attreverso lotta fra le due opposte cospirazioni, un'alternativa fra due possibili visioni estreme di mondi futuri, fra due possibili vie d'uscita dalla matassa di quel mondo solo superficialmente diverso dal nostro (che mi hanno ricordato un po' l'alternativa fra due dei finali di Deus Ex: Invisible War, per qualche motivo), ma anche quel tema sembra comparire dal nulla e poi nel nulla cadere. Come se Enjō avesse infilato a forza qualche trope caro a Itoh prendendolo da altre sue storie.

Insomma, per quanto io non possa assolutamente dire che non mi sia piaciuto, non ho capito dove volesse andare a parare. Né se volesse effettivamente andare a parare da qualche parte.

11 feb 2022

[Essay] "Libertà di" o "libertà da"? - La libertà non esiste senza ideologia

Forse non tutti sanno che, quando si compone una canzone, la lingua in cui è scritto il testo influisce su come si strutturano le melodie. Questo perché ogni lingua ha una propria accentazione, che dev'essere compatibile con l'accentazione delle linee melodiche del brano in questione: ovvero, in teoria, non deve cadere l'accento linguistico su un tempo debole, su una nota corta o su una nota di passaggio. Ecco perché gli accenti di Max Pezzali suonano spesso così strani (penso al "stan quasi chiudendo" de Gli Anni), ecco perché il giapponese è così straordinariamente flessibile (non avendo un vero e proprio accento e avendo sillabe quasi esclusivamente di tipo CV), ed ecco perché chi scrive musica rock/metal o comunque di generi tipicamente anglofoni in italiano è spesso costretto a usare una quantità abnorme di parole tronche o monosillabe (o comunque con una coda post-tonica molto debole).

Porca troia, Turilli.

Una conseguenza di questo fatto è che, negli anni d'oro di Cristina D'Avena e Giorgio Vanni, praticamente tutti i protagonisti dei cartoni animati, dai Cavalieri dello Zodiaco a Robin Hood a Batman, combattevano con abilità e caparbietà e lealtà nell'immensità per la libertà e la verità senza età contro la malvagità e la criminalità poltrone e sofà artigiani della qualità tatatatatatatatatà

Soprattutto una parola ritornava, "libertà", quasi come un mantra, quasi come se la rete che trasmetteva queste sigle fosse presieduta da un uomo che era anche capo di una formazione politica chiamata "Popolo della Libertà". Una forza politica che cercava disperatamente di appropriarsi dell'esclusiva su questo termine, facendone una bandiera e una parola-chiave, in maniera non dissimile da come fanno i conservatori o i libertari di destra americani; e in tutti questi casi, la manovra è abbastanza puzzolente. Non perché il concetto di "libertà" sia troppo importante e cruciale perché venga così marcatamente politicizzato, attenzione: ma perché è un concetto già di per sé così profondamente politico e ideologico, fumoso e aperto a dibattito, che ogni tentativo di legarlo ad una singola sigla o ad un singolo blocco ideologico è irrimediabilmente ridicolo.

Se io vi chiedessi in questo momento, "che cos'è la libertà?", politicamente e umanamente parlando, ognuno di voi probabilmente mi darebbe una risposta diversa. In particolare, vorrei farvi soffermare su una domanda: libertà di o libertà da? Libertà di fare e di essere, o libertà dagli ostacoli che impediscono di fare e di essere? 

Potrebbero sembrare equivalenti, i due concetti, ma in realtà lo sono solo in parte. Innanzitutto, per l'ormai ampiamente accettato concetto per cui la mia libertà finisce dove inizia quella degli altri (per quanto anche questo tutt'altro che privo di spazio interpretativo); in secondo luogo, di nuovo, per la definizione che si dà al concetto; in terzo luogo, per le limitazioni poste in essere dalle leggi morali ed etiche sia sociali che personali; infine, per quale importanza si assegna ad ognuna delle attività o delle scelte o dei pericoli cui si applicano le categorie di liberi di o liberi da. Proviamo a fare un paio di esempi.

Qual è più importante: la libertà di possedere qualunque arma si desideri, o la libertà da il rischio che il compagno di banco mio o di mio figlio venga a scuola con un mitra? La libertà delle aziende di produrre e lavorare senza imposizioni, o la libertà di noi tutti da il morire a cinquant'anni perché l'aria è piena di micropolveri cancerogene e l'acqua di diserbanti velenosi? La libertà dei mercati di comprare, acquisire e fare libera attività economica, o la libertà del consumatore da i monopoli e quindi di scegliere? La libertà del mercato, o quella di ogni cittadino dalla spada di Damocle eterna di doversi procacciare monetariamente almeno la basilare necessità fisiologica dell'acqua potabile? La libertà del cittadino di vivere sapendo che in caso di malattia o incidente grave gli verranno prestate le cure necessarie alla sua sopravvivenza senza per questo finire economicamente in rovina, o quella dello stesso cittadino da le tasse necessarie per la sanità pubblica? In breve: la libertà del borghese, o quella del proletario?

Il semplice fatto che si sia deciso di garantire una determinata libertà significa che qualcun'altra, necessariamente, dovrà essere calpestata.

Facciamo un passo avanti, verso cose più comuni ed esistenziali. Sono davvero libero di scegliere il percorso di studi e la carriera lavorativa che più mi aggradano, se le condizioni del mercato del lavoro sono tali che alcuni lavori o alcune specializzazioni non possono garantirmi la sopravvivenza (perché non pagano abbastanza, o perché proprio non hanno posti di lavoro da offrire)? Insomma, è davvero del tutto appropriato parlare di libertà di scelta se gli outcome di quelle scelte sono così radicalmente diversi nell'effetto che hanno sulla vita di chi compie la scelta (e.g., essere in grado di pagare le bollette e il conto dal fruttivendolo vs. non essere in grado di pagare le bollette e il conto dal fruttivendolo)? Ha senso parlare di libertà di scelta se certe scelte sono, di fatto, solo accessibili a chi abbia un certo tipo di privilegio pregresso? Sono davvero libero di scegliere se possedere un'auto oppure no, se fra casa mia e il mio luogo di lavoro non ci sono né linee di trasporto pubblico né piste ciclabili?

Certo, mi si dirà che si è liberi da costrizioni che impediscano di fare la propria scelta, ma non si è liberi dalle conseguenze di quella scelta, ed è giustissimo. L'esempio tipico è la libertà di parola: tu puoi dire quello che vuoi e non verrai imprigionato o discriminato dallo Stato, ma la conseguenza di quello che dici può essere che vieni licenziato, o che il tuo interlocutore ti dà del coglione e magari pure pure un paio di manrovesci. Ma è proprio questo il punto: prescindendo da questi esempi, in una situazione ipotetica laddove si abbia una disparità di outcome fra due scelte tale che si possa ragionevolmente definire uno di questi oggettivamente preferibile rispetto all'altro, per cui di conseguenza si possa ragionevolmente dire che una scelta è giusta e l'altra è sbagliata, ha ancora senso parlare di libertà di scelta? Ad esempio... la libertà mia di andare al lavoro senza essere contagiato da un virus prevenibile ma potenzialmente letale, o la libertà del Generale Pappalardo dal doversi mettere un pezzo di stoffa davanti a bocca e naso?

Libertà è anche libertà di far danni?

E un ricatto, invece? Anche lì siamo liberi di scegliere? Se io punto una pistola a un'altra persona e le dico "scegli liberamente: puoi darmi il tuo portafogli, oppure non darmelo. Però se non me lo dai ti faccio saltare le rotule" questa persona non è davvero libera di scegliere, no? Ovvio, in questo esempio lo stesso porre la scelta in questi termini è illegale, come è illegale il caso Weinstein in cui la minaccia sia "vieni a letto con me o non lavorerai mai più nel vasto settore dell'industria sotto il mio controllo" (chissà come vedrebbe questa cosa un ancap?), ma in tutta sincerità non trovo che altre situazioni siano poi così diverse, concettualmente e filosoficamente parlando. Scegli: o rinunci a iscriverti al sindacato e a fare attività sindacale, o ti licenzio proprio nel momento in cui devi rinnovare un contratto d'affitto che richiede tu abbia un lavoro stabile. No ma sei libero, eh!

Pensiamo al mondo dei videogiochi, in cui il concetto di esclusività presenta un perfetto esempio di trade-off fra la libertà dei produttori e quella dei consumatori. Un fan sfegatato della saga di Uncharted o di The Last of Us è davvero libero di scegliere se comprare una PS4 o una XBOne o, chessò, un computer? Le sue possibilità sono due: comprare quella specifica console, con quel specifico controller, quello specifico sistema operativo, quello specifico contratto di user agreement, quello specifico servizio online, insomma quel singolo, specifico e immodificaibile pacchetto… oppure non giocare a quel gioco. Non posso giocare all'edizione giapponese di Gears of War, su una Playstation europea, con il controller dell'Xbox, tramite il servizio online e i server di Steam, comprandomi poi i DLC dallo store europeo. Insomma: non sono davvero libero di scegliere, perché la libertà del mercato di farsi il proprio sistema di licenze regionali e sistemi chiusi me lo impedisce. Sono, al massimo, libero di non comprare. Garantire quella libertà a me significherebbe togliere la libertà complementare ad altri.

Libertà non significa nulla senza l'ideologia che la definisca.

La definizione di libertà è diversa per le condizioni oggettive di ognuno di noi, e ognuno di noi sogna e immagina una libertà diversa. Per un anarco-capitalista la libertà potrebbe essere quella di acquistare i servizi di una prostituta minorenne, se questa acconsente liberamente, o di usare dei piccoli ordigni nucleari a scopo ricreativo in una zona deserta; per un socialdemocratico potrebbe essere quella di non essere costretti a prostituirsi per pagarsi da mangiare, o quella di farsi una scampagnata dove diamine vuole senza essere contaminato da radiazioni.

Il problema è che non esiste un sistema politico e socioeconomico tale da accontentare entrambi, né tantomeno tutte le variegate visioni che esistono nel mondo. Intendiamoci: nulla di quello che sto dicendo è anche solo lontanamente nuovo o rivoluzionario. I concetti di "libertà positiva" e "libertà negativa" vengono discussi nella filosofia politica da almeno un secolo, di più se vogliamo rintracciare le origini della distinzione già in Kant e Rousseau, secondo definizioni e giudizi diversi a seconda del pensatore. Ma proprio per questo motivo è, per me, ancora più odioso il fatto che questo concetto non sia passato nella consapevolezza politica né della popolazione né tantomeno della classe dirigente, e che quella parola venga continuamente tirata per la giacchetta da questo o quel gruppo ideologico, e messa in mostra come se fosse un qualcosa di plastico ed immutabile. Perciò io, in questo articolo, voglio essere assolutamente radicale nel ri-affermare la centralità dell'ideologia, della dialettica, della determinazione storica, degli interessi sociali, rispetto a quelli che vengono indebitamente spacciati come valori assoluti.

Perciò lo affermo con la massima chiarezza di cui sono capace: qualche libertà, in una certa misura, dovrà sempre e necessariamente essere calpestata, precisamente per il fatto che si sceglie di garantirne un'altra. In altre parole: il fatto stesso di garantire una certa libertà implica, necessariamente ed inevitabilmente, il calpestarne un'altra.

Quello di libertà, senza ulteriori definizioni o qualificatori, è un concetto vuoto, insignificante (nel senso letterale di che non significa nulla), e qualunque definizione non potrà che essere inestricabilmente dipendente dall'impianto ideologico, politico, storico e filosofico che la sussume. Quindi forse dovremmo smettere di evocare questo termine come un totem semi-divino ed auto-esplicativo, e tornare invece a parlare chiaramente e apertamente di ideologie. 

Perché la libertà senza un'ideologia che la definisca, semplicemente, non esiste.

Perché la libertà è una chimera. Una tendenza. Un trade-off continuo. Una coperta corta. Un infinito irraggiungibile verso cui tendere infinitamente. Un'avventura che non finisce mai. E la vivrai con ogni Pokémon che acchiapperai.

4 feb 2022

[Recensione] Blade Runner 2049 - L'alienazione umana in una società onnimercificata

Blade Runner 2049, 2017

In quest'epoca in cui Hollywood ha apparentemente dimenticato come si hanno idee originali, e quindi per far cassa non riesce a trovare altro che resumare cadaveri di franchise degli anni '80, tirando fuori sequel\reboot che si rivelano invariabilmente o insultanti (Ghostbusters, Charlie's Angels), o divertenti ma insulsi (Jurassic World), oppure semplicemente robaccia confusa e senza identità (Star Wars VII-VIII-IX), Blade Runner 2049 svetta scintillante come un faro nella notte.

Ben lontano dall'essere un film perfetto, è però tutto ciò che un buon sequel deve essere. Riprende i temi dell'originale, espandendoli e aggiornandoli quel tanto che basta a renderli ancora rilevanti. Rispetta l'estetica e l'atmosfera del mondo, e lo proietta in avanti esplorandone altri aspetti. Riutilizza personaggi e ambienti dell'originale in maniera funzionale alla nuova trama, senza snaturarli né fargli togliere spazio a quelli nuovi. 

Realizzato con una cinematografia semplicemente stellare e una colonna sonora bizzarra che si adatta perfettamente a continuare il filone delle musiche dell'83 senza banalmente adagiarvisi (Hans Zimmer <3) , pecca di una trama un po' inconsistente e semplicistica, che si prende tutto il tempo necessario a creare l'atmosfera ma non cura altrettanto i propri sviluppi, e che alla fine della fiera lascia la sensazione di non essere davvero andata a parare da nessuna parte. Anche le scene d'azione sono alquanto mediocri, soprattutto alla fine: né abbastanza gritty e realistiche, né abbastanza eccitanti. Ma mai, nemmeno per un secondo, ho perso l'interesse che mi ha incollato allo schermo, né mi sono sentito insultato o manipolato, nè ho smesso di sentirmi immerso in quell'universo.

Ho apprezzato particolarmente il modo in cui vengono accennati svariati temi.

IL GIALLO! (cit.)
 

Innanzitutto, il multisfaccettato orrore di quel mondo: cambiamenti climatici devastanti (a due passi da Los Angeles c'è una barriera che blocca il mare!), dipendenza dalla tecnologia (un EMP ha cancellato tutti gli archivi elettronici), mercificazione di ogni centimetro cubo di spazio vitale e di ogni possibile tipo di figura femminile, uso di replicanti come forza lavoro bistrattata, sovraurbanizzazione, povertà diffusa, lavoro minorile (atto, peraltro, a estrarre nichel dai rifiuti, altro tema caldo!). 

Ma soprattutto, il fatto che gli umani abbiano aspetto e comportamenti in realtà molto meno umani rispetto ai replicanti e persino alle IA. Il che si inserisce nel più ampio tema della sempre minor divisione fra l'umano e l'artificiale, qui separati solo da un "muro" puramente percepito che tiene su una parvenza di ordine sociale altrimenti destinato a collassare, se mai dovesse crollare; ovvero, se i replicanti (quelli che fanno "i lavori che gli umani non vogliono più fare") mai si ribellassero. O, come viene effettivamente trattato nel film, se emergesse che anche i replicanti hanno la capacità di procreare autonomamente. Persino su Deckard rimane la storica ambiguità se sia umano o replicante. 

Da più parti, leggo che la critica si è soffermata molto sulla questione del (mal)trattamento delle minoranze, ma... se devo essere sincero, è tipo l'unico tema che mi pare invece del tutto assente. Un po' la stessa cosa che è stata fatta in Deus Ex: Mankind Divided e in Detroit: Become Human, in cui temi estremamente pertinenti al mondo reale come la meccanizzazione del lavoro, la disuguaglianza economica, lo strapotere delle corporation, la trans-umanità ecc. vengono messi in bella vista solo per essere totalmente ignorati in favore di una goffa metafora sul razzismo, rappresentata non attraverso il pregiudizio insensato o lo sfruttamento verso categorie realmente esistenti, ma attraverso quello (perfettamente sensato, in-universe) verso esseri artificiali o addirittura semplicemente "potenziati".Anzi, vedo una società multiculturale in cui un Blade Runner americano può parlare in inglese e usare un computer che parla in giapponese e chiacchierare con un tizio africano o una tizia messicana che parlano la loro lingua natale senza alcun problema, e in cui non sembrano esserci tracce esplicite di razzismo o omofobia. 

 

Che bella la vita nel meraviglioso mondo di quelli che non capiscono un cazzo.
 

Poi leggo che qualcuno su Vice e altrove ne ha parlato accusandone la rappresentazione delle donne, perché quasi tutte le donne o muoiono o sono in qualche modo oggetti sessuali, in funzione di una sorta di pandering agli uomini etero, ma critiche del genere (per questo film, s'intende) stanno nel campo dell'analfabetismo funzionale e dell'ignoranza di qualsivoglia minima capacità di lettura del linguaggio artistico, quindi possono tranquillamente essere ignorate. E derise. E fotografate a eterna memoria del cringe. Prima di chiamare uno psicologo perché chiaramente 'sta gente non sta bene.

No, piuttosto io ci vedo una rappresentazione estrema dell'alienazione umana in una società ultra-mercificata. Rappresentazioni quasi pornografiche abbondano nella pubblicità, donne olografiche o replicanti offerte come oggetti, mentre i poveri strisciano in suburbi luridi odiando un replicante che, in quegli stessi suburbi luridi, almeno ci ha un appartamentino (la cara vecchia lotta degli ultimi contro i penultimi, invece che contro i Wallace del mondo). Un appartamentino in cui vive da solo, con un simulacro di relazione matrimoniale progettato per dire al maritino frasi da mogliettina anni '50 e per preparare pasti abbelliti con proiezioni olografiche che gli mascherino, almeno agli occhi, la sbobba insapore che sta in realtà mangiando. 

E qui è dove veniamo all'elemento secondo me più significativo. La scena in cui l'IA assolda una prostituta su cui "sovrapporsi" per permettere al protagonista di far sesso con lei è secondo me il punto più alto del film, concettualmente, tecnicamente e tematicamente.

 

Fin dal suo nome, "Joi". Si tratta probabilmente di una coincidenza, ma è lo stesso nome di un bizzarro genere pornografico che già si inserisce in questo tema, essendo incentrato, in un certo senso, non sulla masturbazione su una fantasia, ma sulla fantasia dell'onanismo stesso; non un simulacro che fa desiderare il reale, ma un simulacro autoreferenziale che rimanda al simulacro stesso. L'alienazione dell'uomo-lavoratore e la mercificazione e "virtualizzazione" dei rapporti umani sono arrivati a un livello tale, che una persona come il protagonista ha in un ologramma commerciale il proprio unico e più profondo rapporto umano, al punto che, non potendola toccare per ovvie ragioni, mercifica ulteriormente una donna vera (OK è una replicante anche lei, ma abbiamo capito che in questo universo la cosa non conta) per usarla come involucro carnoso di un oggetto intangibile.

 

Il Reale, l'umano, è usato come attrezzo intermediario per accedere al virtuale, al simulacro; la carne è usata come onahole per accoppiarsi con una fantasia. Tutto questo, però, in un contesto in cui la cosa appare pure come una relazione sincera e credibile, in cui questo amore fra due creature artificiali (un replicante e una IA) si fa percepire come più disinteressato e più tenero di qualunque relazione si veda fra due esseri umani.

Di nuovo: il virtuale, l'artificiale, è più "vero" del reale e del naturale. Ecco, credo che anche al netto dell'aspetto sessuale\pornografico, questo sia uno dei temi più attuali e pregnanti del film. Baudrillard e Slavoj Žižek ci andrebbero a nozze.