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29 mar 2017

[Essay] Sulla grammatica del linguaggio di genere in italiano

La questione del linguaggio di genere, ovvero dell'opportunità e l'importanza di marcare il femminile di parole quali "sindaco", "assessore" o "presidente", è stata a lungo dibattuta negli ultimi anni, in Italia e non solo. Nonostante le mie note posizioni contrarie a buona parte del femminismo contemporaneo, io sono convinto che questo argomento non sia solo, per coniare un termine, una "boldrinata": la lingua in cui parliamo è la lingua in cui pensiamo, e la lingua in cui pensiamo è indice delle categorie che usiamo per classificare la realtà. Tuttavia, anche questo discorso dovrebbe essere affrontato con un po' più di equilibrio da entrambe le parti. 

Sì,  sono totalmente d'accordo con l'idea che ostinarsi a dire "il sindaco Raggi" o "il presidente Boldrini" sia ideologicamente e persino grammaticalmente sbagliato, e con l'idea che questo possa mantenere in vita un'idea retrograda che considera certi ruoli come "tipicamente maschili" (al di là del mero dato statistico) e quindi che tratta le donne in quei ruoli in modo diverso. Però, in un momento storico in cui qualche assoluto folle suggerisce senza apparente intento satirico di rendere il sostantivo "amore" di genere neutro, bisogna non perdere di vista due punti imprescindibili sulla questione. 

  1. Non commettiamo l'errore grossolano di confondere il genere grammaticale con il genere "reale".

    Frege e il buon vecchio Saussure ci insegnano da ormai più di un secolo che la lingua non classifica direttamente la realtà, i referenti reali del discorso, bensì dei concetti, delle idee, delle divisioni arbitrarie della realtà che cambiano da lingua a lingua, o meglio, che fanno parte della lingua stessa. Indi per cui, ad esempio, la lingua giapponese distingue i concetti di ‘fratello maggiore’
    (, ani) e ‘fratello minore’ (, otōto) in due lessemi mono-morfematici diversi, e il tedesco usa termini specifici per concetti che l'italiano nemmeno conosce quali “Schadenfreude”.[1] Le lingue naturali sono assolutamente arbitrarie nel loro legame con la realtà materiale: il fatto che in tedesco la parola per "ragazza, ragazzina, giovane donna", ovvero das Mädchen, sia di genere neutro non significa che i tedeschi pensino che le ragazze siano esseri asessuati[2], né il fatto che in siciliano "minchia" sia di genere femminile significa che i siciliani pensino che gli uomini siano in realtà delle donne.

    Il fatto che "amore" sia di genere grammaticale maschile non significa, ideologicamente o eticamente parlando, un'emerita corba di belino. Altrimenti dovremmo lottare affinché anche "ragione" sia di genere neutro invece che femminile, se no qualcuno potrebbe altrettanto sensatamente lamentarsi di come quella parola perpetui stereotipi per cui le donne hanno sempre ragione; e il mondo intero si metterebbe giustamente a ridere. Non dimentichiamoci mai che il genere grammaticale, o "classe nominale", è semplicemente un’etichetta che dice quale set di regole morfologiche è arbitrariamente assegnato a quale sostantivo, e dire "un’amore" non fa di nessuno una suffragetta rivoluzionaria.


    Insomma, in parole povere:
    la lingua è indice di e può influire su il modo in cui si vede la realtà, ma questo non significa che ci sia assoluta identità fra le due cose.
      

  2. L'italiano ha già un corrispettivo funzionale del neutro: il maschile.

    L'italiano ha due generi grammaticali
    (o "classi nominali"): maschile e femminile. Questo ci distingue ad esempio dal tedesco e dal latino, che hanno anche il neutro, dall'inglese e dal giapponese, che non ne hanno nessuno, dallo zande, che ne ha quattro (umano maschile, umano femminile, animato, altro), e dal polacco, che ne ha di fatto cinque (al singolare ci sono maschile, femminile, e neutro, e al plurale si distingue invece in virile per esseri umani maschili e non-virile per altri esseri umani, animali e oggetti inanimati).[3] Tuttavia, questo non significa che in italiano la realtà sia distinta esclusivamente in "maschio" e "femmina", ovvero che non esista un corrispettivo funzionale del genere neutro. Se andiamo ad esaminare l'etimologia latina di molte parole maschili italiane, scopriamo che c'è un'ampia casistica di sostantivi la cui forma italiana deriva in realtà da quella che in latino era la forma neutra, e che i due generi (maschile e neutro) si sono di fatto fusi. Se indichiamo un gruppo di cinque femmine e un maschio diciamo "i ragazzi"; se diciamo "esco con gli amici" non escludiamo che nel nostro gruppo di amici ci siano ragazze (che siano una parte minoritaria, maggioritaria, o addirittura totale); mentre, al contrario, dicendo "esco con le amiche" escludiamo categoricamente la presenza di maschi nel gruppo. È quindi chiaro che in italiano il genere maschile ricopre di fatto il ruolo del neutro, del non-marcato, del non-specificato, mentre il femminile costituisce una marcatura speciale. Quindi: chi afferma che usare "il sindaco" o "l'assessore" al maschile può significare riferirsi al ruolo in sé, nella sua neutralità, a prescindere dal sesso della persona che lo ricopre, dice qualcosa di linguisticamente esatto; non è l'unico e solo modo corretto di esprimersi, ma è esatto.


    Poi, volendo, possiamo discutere se sia giusto "nascondere" il femminile nel "non-marcato" o se non sia piuttosto opportuno usare in ogni circostanza espressioni che fanno riferimento esplicito a entrambi i generi (es: "I cittadini e le cittadine", "I bambini e le bambine" ecc.
    [4]), ma definire sessista e misogino l'uso attuale, o ancora peggio chi ne fa uso perché gli strumenti linguistici correnti sono quelli, è semplicemente delirante.

Detto questo, è altrettanto esatto e persin necessario usare la forma femminile di nomi di ruoli e professioni laddove questo sia opportuno. Il problema è proprio capire dove, quando, e come sia opportuno. La regola generale è: fate riferimento all'Accademia della Crusca, quella è gente che ha giustamente sdoganato l'uso del "a me mi" ricordando a tutti che in linguistica esistono anche gli assi pragmatici e tematici, quindi sanno di cosa stanno parlando. Voglio però marcare alcuni punti chiave per evitare che questo fronte della lotta per la parità di genere si trasformi in una parodica cavalcata di idiozie, minando la credibilità della causa (incidentalmente, se mai nel futuro scriveranno libri sul femminismo nordamericano del primo ventunesimo secolo, "Una parodica cavalcata di pericolose idiozie che minano la credibilità della causa" sarebbe un sottotitolo tristemente appropriato).
  • In frasi come "Maria Rossi è stata eletta al ruolo di sindaco" o "Maria Rossi esercita la professione di avvocato", usare quei sostantivi al femminile non sarebbe solo non necessario, sarebbe proprio sbagliato: il riferimento del sostantivo in esame è al ruolo, al concetto nella sua neutralità, quindi è richiesto l'uso della forma neutra, non-marcata (ovvero: il maschile). Per lo stesso principio per cui il mestiere di bidello è maschile anche se è un ruolo sia statisticamente che, per così dire, "pregiudizialmente", femminile.
  •  Per termini quali presidente o dirigente o insegnante o cantante, che derivano dal participio presente di un verbo e sono, di conseguenza, invariabili sul genere, la flessione femminile va esclusivamente sull'articolo e sugli eventuali aggettivi. Sono, per così dire, termini naturalmente neutri. Propongo la crocifissione in sala mensa e l’esposizione di un'ora al pubblico ludibrio per chiunque dica, seriamente o scherzosamente, "la presidenta". Similmente, anche il suffisso -ista che indica 'persona che svolge un’attività, segue un’ideologia o presenta determinate caratteristiche' (Treccani) è naturalmente neutro nonostante l'uscita in -a: quegli anti-femministi che protestano "eh ma allora dovremmo usare camionisto e artisto" si accomodino in sala mensa, c'è una croce anche per loro.
  •  È fondamentale distinguere quando, in una frase, il sostantivo in esame si riferisce alla persona (ad esempio: "La professoressa Rossi è preparata e competente" o "Rossi è una professoressa preparata e competente") e quando si riferisce al ruolo (ad esempio: "Un professore deve essere preparato e competente, e la signora Rossi lo è", o “È difficile trovare un professore preparato e competente come Maria Rossi”[5]); in quali contesti sia opportuno fare riferimento al ruolo, e in quali alla persona. In molti casi questa distinzione è relativamente chiara e palese (ad esempio, il "burocratese" di molti documenti fa riferimento al ruolo prima che alla persona), ma in molti altri c'è un'ambiguità tale che entrambe le forme possono essere teoricamente corrette, e sarà la declinazione stessa del sostantivo e dei suoi dipendenti sintattici a indicare il referente inteso dal parlante.
  • Il suffisso -essa in termini come "avvocatessa" si porta dietro una storia di uso dispregiativo o ironico, tant'è che fino a pochi decenni or sono veniva usato per riferirsi, ad esempio, non a una donna-avvocato, ma alla moglie di un uomo-avvocato. È meglio evitarlo, quindi, nella formazione di nuove parole, e usare una più semplice flessione femminile in -a: avvocata, sindaca, assessora. Fanno eccezione, ovviamente, i termini già ampiamente affermati anche in ambito professionale, come "dottoressa", "campionessa" e "professoressa". Sì, mi rendo conto che formare il femminile di "dottore" in "dottrice" sarebbe morfologicamente sensato (-tore diventa -trice in molti termini simili, come "traduttore/traduttrice" o "portatore/portatrice" o "nuotatore/nuotatrice"), ma la lingua è convenzionale e se dite "dottrice" a una dottoressa quella come minimo si sente presa per il culo, e se dite "professora" alla vostra professoressa di italiano quella come minimo vi mette un 2. Nel dubbio piuttosto usate il termine non-marcato. Eccezione nell'eccezione è, a mio avviso, il termine "studentessa", in quanto rientra nel caso precedente dei sostantivi derivati da participi presenti e quindi la versione maschile/non-marcata "studente" può ragionevolmente essere considerato un termine neutro.
La lingua italiana è una creatura innocente, come qualunque altra lingua, e come qualunque altra lingua può negli anni cambiare le sue regole e i suoi usi; tuttavia, questi cambiamenti non possono essere imposti con la forza da una singola agenda politico-culturale, soprattutto se confliggono con le regole esistenti. Se poi, a ben vedere, le regole esistenti già permettono di raggiungere l'obbiettivo di questa agenda, applicandole con la dovuta attenzione e con il dovuto approfondimento, forzare cambiamenti non necessari rende la nostra causa più difficile da digerire, più violenta, e più apparentemente insensata di quello che dovrebbe essere. La lingua è apolitica, l'uso che se ne fa è o può essere politico, quindi questi cambiamenti devono passare attraverso la linguistica e la grammatica, e devono essere promossi da coloro che sanno come interfacciarli allo stato attuale della lingua, non attraverso generiche boldrinate o accuse a sproposito di maschilismo; né, dall'altro fronte, devono essere opposte come se richiedessero sforzi e rivoluzioni innaturali quando, molto spesso, basta capire e applicare i meccanismi già esistenti. Insomma: comunque la pensiate, cercate di non farvi crocifiggere in sala mensa.



[1] i.e.: il signifiant (per usare la terminologia saussuriana) “albero” non è un simbolo per questo o quell’albero reale, ma del signifiè ‘albero’, ovvero un’idea, un concetto di albero condiviso da tutti i parlanti quella lingua, e entrambi questi elementi fanno parte del segno linguistico. Per questo per me è sempre difficile spiegare il verbo “disbelinarsi” ai non liguri.
[2] Semplicemente, il suffisso vezzeggiativo  -chen rende qualunque parola di genere neutro. Similmente, “Bruderchen” (fratellino) è neutro e non maschile, “Fräulein” (signorina) è neutro e non maschile, ecc. La ragione di questo genere è puramente grammaticale, morfologica, e non semantica o “reale”.
[3] Si palesa la necessità di un’ovvia battuta sul fatto che se Tumblr fosse una lingua avrebbe un centinaio di generi grammaticali.

[4] In Germania è pratica comune, con addirittura la regola specifica di dire sempre prima il femminile, ma il risultato è, a mio avviso, efficace ma inutilmente macchinoso e innaturale, oltre che eccessivamente trying too hard. Piccola nota divertente: non so se sia vero o meno, ma il mio lettore di tedesco ci raccontò un giorno che qualcuno aveva addirittura seriamente proposto di cambiare tutti i cartelli delle zone pedonali per scriverci sopra "Fußgängerundgängerinzone" invece di "Fußgängerzone".
 
[5] Usare “professoressa” in queste frasi vorrebbe dire restringere il campo di validità di quelle affermazioni alle sole donne-professore: vorrebbe dire affermare che solo le donne-professore devono essere preparate e competenti, mentre gli uomini-professore no; oppure che è difficile trovare donne-professore preparate e competenti come Rossi, mentre tra gli uomini è normale. Esatto: usare il femminile dove non necessario per fare la figura dei super-progressisti potrebbe dare alla vostra frase un significato sessista e misogino.

24 mar 2017

[Musica/About me] STRAIGHT TO PAIN - Earthless

Per la serie "So che l'auto-pubblicità è una cosa squallida ma se avessi una dignità non sarei qui", vorrei approfittare di questo spazio gentilmente concessomi da me medesimo per fare un po' di pubblicità a un progetto a cui ho partecipato.

Mi sono unito agli Straight to Pain, gruppo metalcore savonese, a inizio 2015, eccezionalmente in qualità di bassista. Né il metalcore/death metal né il basso sono mai stati in particolare la mia cup of tea, ma l'azzardo che è stato per me entrare in quel gruppo si è rivelato una delle decisioni migliori della mia vita. Ho incontrato musicisti e amici straordinari, ho rinvigorito il fuoco della mia creatività, mi sto divertendo da morire, e ho raggiunto un obbiettivo che sognavo da tempo: ho registrato e pubblicato un album. 

Un EP, per la precisione: Earthless. Potremmo quasi definirlo un concept album, nel senso che tutte le canzoni sono percorse da un unico filo conduttore: la fine di tutte le cose, la morte spirituale e fisica del mondo, provocata dai peccati e dalla cecità di un'umanità che ormai ha perso tutte le occasioni per fermare una discesa ormai inarrestabile verso l'inferno. Per trasmettere questa sensazione, abbiamo puntato a un suono sporco, non prodotto, che ricalcasse il più possibile la nostra resa dal vivo. Batterie, basso e chitarra sono stati registrati separatamente ma in presa diretta, usando esclusivamente i suoni delle nostre pelli, dei nostri effetti, dei nostri amplificatori. Musicalmente è stato un grosso passo avanti rispetto al loro lavoro precedente, Horizon Calls, in quanto ci siamo mossi verso un sound meno metalcore e più vario, unendo elementi black metal (Roots of Desperation, Everything Dies), groove metal (No One Left to Save), thrash metal (Everything Dies, No One Left to Save), e melodic death metal (Whisper of War, Let It Burn); e in quanto, oso dire, il growl del nostro Simone è decisamente migliorato.

Chiaro, non è un album "per tutti", perché il death metal può non piacere; e ovviamente lamentele, cose che cambieremmo ecc. ce ne sono, non saremmo musicisti se non ci considerassimo sempre imperfetti e migliorabili; tuttavia, personalmente, è un lavoro di cui vado molto orgoglioso. Abbiamo ricevuto buone recensioni, e il fatto che in tanti abbiano avuto difficoltà a classificarci con sicurezza è, per come la vedo io, un buon segno.

Vi lascio con il video promozionale dell'album, e tutti i link del caso. Se vi va, acquistatelo!

 

22 mar 2017

[Recensione] The Walking Dead - Season 1


Il titolo più noto e meglio accolto della TellTale Games si basa, com'è ovvio dal titolo, sulla serie a fumetti e televisiva The Walking Dead, da cui però prende in prestito solo il setting e alcuni camei di poco rilievo per mettere invece in scena una storia completamente originale. Ludicamente, è incentrato sullo spingere il giocatore a prendere rapidamente delle decisioni difficili in condizioni disperate. 

Lee Everett è un condannato per omicidio che, durante il trasporto in prigione, si ritrova coinvolto nell'esplosione dell'eponima apocalisse zombie. Rifugiandosi in una casa, incontra una bambina, Clementine, rimasta sola, e decide di aiutarla e proteggerla. Intorno a loro si radunerà progressivamente un gruppo di sopravvissuti che si troverà costretto a lottare assieme, fra divergenze e litigi e reciproci sospetti, per cercare di restare vivi in una situazione senza apparente via d'uscita.

Già da questo incipit potrete forse notare una somiglianza con un titolo di poco più recente, The Last of Us: un adulto dal passato dubbio che si ritrova a proteggere una ragazzina molto più giovane di lui in un mondo sconvolto dall'apocalisse zombie. Una somiglianza superficiale, ovviamente, ma tenerla a mente mi ha fatto notare come le storie dei due giochi avessero in comune molte situazioni, e questo confronto (probabilmente pretestuoso, ma comunque istruttivo) è stato tale da farmi dire che, dal punto di vista narrativo, questa prima stagione di The Walking Dead è un The Last of Us fatto meglio.


La qualità narrativa è davvero altissima su tutti i fronti: storia, personaggi, regia, doppiaggio, e dialoghi di un'umanità e un realismo sorprendenti, anche nelle loro illogicità e idiosincrasie. I cinque episodi riescono a portare a casa una crescente intensità emotiva, man mano che aumenta l'attaccamento (o l'odio!) nei confronti di questo o quel personaggio, nei confronti dei loro conflitti e delle loro relazioni. Alcune scene, in particolare, prendono nelle viscere come non molti giochi sanno fare, tant'è che l'ultimo episodio può vantarsi di essere il primo gioco ad avermi letteralmente fatto piangere davanti allo schermo dai tempi ormai lontani di Metal Gear Solid 4.

I TTG, infatti, al contrario dei Naughty Dog, non presentano una situazione tragica o scioccante per poi sfumare sul nero e passare oltre: mostrano con crudi dettagli l'evidenza del dramma, fanno osservare e interagire con le reazioni dei sopravvissuti (la rabbia, la disperazione), ti ci sbattono la faccia dentro e ti ci fanno rosolare fino a farti chiedere pietà. Trasmettono efficacemente i temi dell'innocenza fanciullesca costretta a finire anzitempo per far spazio alla durezza necessaria a sopravvivere, delle azioni orribili che l'uomo è disposto o costretto a compiere per sopravvivere, della difficoltà di restare umani e razionali in un contesto disperato in cui la società e le sue regole sono crollate; il tutto, però, con protagonisti molto più facilmente identificabili rispetto a un Joel che, per quanto umano, veniva presentato fin dall'inizio come un tough guy già privo di qualsivoglia bussola morale. Sarà solo la mia opinione, ma credo che il concetto di quanto il mondo sia andato a puttane sia espresso meglio da un gruppo di persone normali che discutono se rubare delle provviste altrui per nutrire i propri figli, o che litigano se lasciare o meno al proprio destino un membro che si è dimostrato poco affidabile, piuttosto che da un contrabbandiere muscoloso che senza scomporsi spezza un braccio a una persona ferita, atterrata e inerme: nel primo caso ti senti coinvolto umanamente, metti in discussione le tue convinzioni morali, cerchi di immaginare cosa faresti in quella situazione; nel secondo caso registri che il protagonista è un figlio di puttana e passi oltre.


Il gameplay, come ci si può immaginare, è alquanto scarno, persino per un adventure game punta-e-clicca. Ci sono alcune sparute sezioni di shooting o di stealth, una vagonata di quick time event, e ovviamente alcuni (semplicissimi) enigmi da risolvere, ma il grosso dell'interazione è incentrata sulle opzioni di dialogo e sulle scelte "morali". Le prime sono costanti attraverso tutta la storia, cose quali scegliere da che parte stare durante un litigio, essere più o meno ostili nei confronti di una persona, usare termini più o meno diplomatici, decidere in che modo compiere una determinata azione, ecc.; nella maggior parte dei casi, il risultato si limita a influire sull'opinione che gli altri personaggi hanno del protagonista, ma questo a sua volta influenza il loro comportamento, per cui una o due azioni particolarmente ostili nell'episodio 2 possono farsi sentire nell'episodio 5. Per quanto riguarda le seconde, invece, si tratta di scelte decisamente più difficili, che coinvolgono ragionamenti pratici quanto etici. Ad esempio: ci sono due persone in difficoltà; salvo quella in minore difficoltà, ma che una volta liberata può armarsi e sparare bene, o quella in maggiore difficoltà, ma che non dà garanzie di essere utile dopo? C'è da partire per un'azione pericolosa: mi porto dietro la bambina, per proteggerla e per sfruttare le sue capacità mettendola però certamente in pericolo, o la lascio indietro da sola, col rischio di aver bisogno di lei o, ancora peggio, che si presenti qualche minaccia imprevista mentre non c'è nessuno a difenderla? Non c'è abbastanza cibo per tutti: a chi do le poche razioni che abbiamo, ai bambini che sono più deboli, agli adulti che devono proteggerli, a chi mi sta più simpatico, a chi mi sta più sul cazzo per ricucire i rapporti, a me stesso...? 

Alcune di queste decisioni influiscono ovviamente anche sugli eventi, sulla vita e la morte dei personaggi, oltre che sul loro rapporto col protagonista, ma trattandosi di una prima stagione (e presumo anche di un primo esperimento con questo tipo di gameplay) qualunque scelta si faccia non fa divergere significativamente la trama dal proprio binario: magari in alcune scene ci sarà Tizio invece di Caio, magari Tizia invece di dirti che sei l'unico di cui si fida ti darà dello stronzo, magari invece di aiutare X a fare una cosa ti limiterai a protestare vivamente mentre X la fa per conto suo, ma la maggior parte della storia si svolgerà più o meno nello stesso modo. Questo però si scopre con più giocate, e non toglie nulla al potentissimo impatto emotivo che quelle scelte e le loro conseguenze hanno quando ci si trova per la prima volta nella tensione del momento.

In definitiva, il successo di questa prima stagione di The Walking Dead è meritatissimo: i TTG ci danno un titolo semplicemente eccellente dal punto di vista narrativo, e efficacemente originale (per quanto scarno e lineare) dal punto di vista ludico. Consigliatissimo a tutti, compresi coloro che, come il sottoscritto, non conoscono né amano la serie a cui si ispira, e soprattutto a chi ha apprezzato i temi di The Last of Us, che potrebbe trovare in questo gioco un'esperienza narrativa dello stesso tipo ma ancora più valida, pur senza gli standard AAA. Sono molto curioso di giocare le prossime stagioni, sperando che le scelte del giocatore influiscano di più sull'andamento della trama.

15 mar 2017

[Recensione] Velvet Assassin




Di giochi basati sulla Seconda Guerra Mondiale ce ne sono probabilmente abbastanza da totalizzare più morti virtuali di quanti il conflitto ne abbia visti di reali. Forse perché è l'ultimo conflitto della Storia umana che i vincitori hanno potuto raccontare realisticamente come una guerra del bene contro il male, degli eroi che si sacrificano per fermare un nemico così chiaramente malvagio e pericoloso per il mondo intero. E in effetti, quando il nemico è un nazista è facile per chiunque di noi razionalizzare qualunque atto di violenza (virtuale) compiuto contro di lui: perché dovrei sentirmi in colpa per aver appena ucciso un altro essere umano?, era un nazista! Questa narrativa così eticamente semplice è talmente comune che è raro vedere un'opera, figuriamoci un videogioco, che cerca di rappresentare la crudezza di quel conflitto in maniera moralmente grigia, se non altro perché farlo è difficilissimo. Per questo, però, ho sempre avuto un punto debole per quelli che cercano di ricordare che anche l'esercito tedesco, probabilmente, era composto in buona parte da giovanotti reclutati a forza in una guerra voluta da un branco di maniaci nei loro palazzi del potere, mandati a morire per cause di cui poco capivano, lasciando a casa dei genitori malati, una fidanzata incinta, e un cagnolino che ogni giorno aspettava inutilmente il suo ritorno guaendo davanti alla porta.[1]

Per questo, e per altri motivi, non riesco a odiare Velvet Assassin, nonostante sia un titolo così narrativamente pretenzioso e ludicamente mediocre. Ispirato (liberamente) alla vita della combattente anglo-francese Violette Szabo, il gioco segue la storia di Violette Summers, un'assassina con una pettinatura semplicemente favolosa operante dietro le linee nemiche nell'Europa occupata, che mentre si trova in stato comatoso in un ospedale francese ricorda le missioni che l'hanno portata lì. L'atmosfera del gioco è cruda e sporca come un panino del McDonald's: gli ambienti che si visitano sono sozzi e bui, le animazioni delle uccisioni violente e spesso inutilmente sadiche, il gioco si premura di farci trovare lettere e dialoghi che danno un tocco di umanità ai soldati nazisti (lettere alle fidanzate, sollievo per l'essere assegnati lontano dal fronte, certezza di aver ormai perso una guerra continuata inutilmente solo dalla pazzia del Führer ecc.), ma al tempo stesso non si trattiene dallo sbatterci in faccia le loro atrocità (esecuzioni sommarie di donne e bambini nei ghetti ebraici, dialoghi razzisti, rappresaglie contro la popolazione civile, ecc.*[2]), né dal presentare Violette stessa come una mezza psicopatica. Ha personalità, insomma, e nonostante alla fine della fiera sia la trama che i personaggi non vadano a parare da nessuna parte, con un finale inutilmente opaco e pretenziosamente "artsy", ha la capacità di lasciare il segno. Se non altro, per il fascino della protagonista e del suo delizioso accento inglese.


Il gameplay è uno stealth abbastanza tipico, reso un po' macchinoso forse dall'inesperienza dello studio o forse dalla mancanza di fondi, ma semplice e funzionale: nell'ombra sei invisibile, alla luce sei visibile, le guardie si muovono lungo percorsi di pattuglia prestabiliti, e tu hai un coltello molto affilato. La meccanica "unica" di Velvet Assassin è data dalla morfina: nelle mappe si possono raccogliere delle siringhe di morfina, che una volta inniettate danno qualche secondo di bullet-time nei quali è possibile spostarsi senza essere visti oppure compiere un'uccisione silenziosa, anche dal davanti, su un nemico immobile; ha un suo senso dal punto di vista narrativo (usandola, Violette appare nella camicia da notte che veste in ospedale, suggerendo che si tratti di una sorta di "allucinazione" o di "corruzione dei ricordi" dovuta al suo trovarsi ferita, delirante, sotto morfina), e non può essere abusata perché si disattiva automaticamente dopo un'uccisione, quindi risulta un'utile e interessante carta "Esci gratis di prigione" in caso di emergenza.

 

Una volta scoperti c'è la possibilità di fuggire o combattere, ma le munizioni sono scarse, le armi rare, la salute poca, e i controlli della mira appiccicosi e imprecisi, quindi tanto vale ricaricare al primo "Töt die Schlampe!". Ma ci sta: apprezzo che un gioco stealth COSTRINGA ad agire di soppiatto, invece di adeguarsi alla scuola dei vari Assassin's Creed o Thief (2013) di pensare che "libertà del giocatore" significhi dire "fuck it, do whatever you want, we don't even have a point anymore". O meglio... lo apprezzerei, se l'ultima missione non diventasse un'insipida sequela di sparatorie obbligate che culminano in un'interminabile difesa contro ondate di nazisti col lanciafiamme che spawnano letteralmente dal nulla. Purtroppo però è così, e questo significa che la mira imprecisa e scattosa sarà il tramite fra voi e la violazione del comandamento "Non nominare il nome di Dio in vano". Ed è davvero, davvero un peccato, perché quel finale aveva almeno il pregio di essere il momento più crudo e tragico del gioco, ma impostato così, come uno showcase dei suoi peggiori difetti, come se Star Wars finisse con mezz'ora di dialoghi d'amore fra Anakin e Padmé, trasforma quello che dovrebbe essere l'apex dell'esperienza nel suo momento più forzato e infuriante. 

In alcune sezioni ci si può travestire da ufficiale delle SS, ma basta avvicinarsi troppo a un soldato per essere scoperti.

In definitiva, Velvet Assassin è un gioco che, nonostante molti difetti sia dal punto di vista ludico (lineare, ripetitivo, interfaccia un po' macchinosa, dialoghi casuali delle guardie troppo fastidiosi) che dal punto di vista narrativo, non riesco a odiare, sia perché ha un'atmosfera e un tono tutt'altro che comuni per un titolo ambientato nella Seconda Guerra Mondiale, sia perché lo stealth, di per sé, funziona bene. Tuttavia, in tutta sincerità, non mi sento di consigliarlo: ci sono giochi migliori sia che cerchiate un buon stealth, sia che cerchiate una storia di guerra cruda e matura, sia che cerchiate un personaggio femminile a cui guardare il sedere. Per quanto, a essere onesti, è difficile trovarne che abbiano tutte e tre queste caratteristiche. Se vi capita di trovarlo scontatissimo su Steam potete farci un pensierino per il suo stile "artsy", ma non aspettatevi il capolavoro della vita.


[1] Capiamoci: chi sposa consciamente quell'ideologia, anche oggi, non merita alcuna compassione umana, ma non ci sto a demonizzare aprioristicamente un intero popolo, né un intero esercito che so essere stato composto prevalentemente da proletari coscritti a forza.
[2] Apprezzabile il fatto che molti dei soldati cantino a loop gli stessi due-tre motivetti irritanti, facendo quindi tornare al giocatore il desiderio irrefrenabile di piantargli un coltello in gola nonostante la loro riscoperta umanità. Almeno, credo fosse quello lo scopo... o no?