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27 nov 2017

[Risposta] Bamboccioni, hanno un lavoro e vivono al Nord - È davvero grave?

Qualche settimana fa, mi è capitato di leggere alcuni articoli riguardo l'inchiesta della Banca d'Italia sui giovani adulti che continuano a vivere a casa dei genitori, anche quelli che un lavoro ce l'hanno, il cui numero sembra decisamente sopra la media europea. In particolare, mi riferisco a questi:

TGCOM24: "Bamboccioni, ecco il nuovo identikit: hanno un lavoro e vivono al Nord"



Ora, prescindiamo da tutte le (scontate quanto inevitabili) considerazioni di carattere socio-economico, quali la disoccupazione, la precarietà, l'alto costo delle abitazioni, la mancanza della sicurezza lavorativa di cui godeva la generazione del boom, la perdita dei diritti tanto duramente strappati dai sessantottini eccetera: tutte cose che oggettivamente rendono difficile rendersi indipendenti, ma che sono state abbondantemente discusse. Traliasciamo anche l'ipocrisia ripugnante di una politica al costante servizio dei poteri capitalistici, che con una mano taccia questi giovani di essere bamboccioni/choosy/sfaticati, e con l'altra agisce per solidificare le posizioni di chi un lavoro ce l'ha già, per allontanare ancora di più la pensione degli anziani (e con essa il turnover generazionale), e per rendere sempre più conveniente ai padroni il lavoro precario, quando non gratuito (alternanza scuola-lavoro).
Vorrei invece vedere la cosa da un altro punto di vista, e chiedere: è davvero così sbagliato? Alla fin fine, che problema c'è? 

Mi spiego meglio. L'idea che i pargoli debbano necessariamente uscire di casa a 20-25 anni e andare a vivere per conto proprio è relativamente recente nella cultura umana, e proviene più dalla cultura cittadina e/o germanico-anglosassone (in particolare quella americana, più individualista) che da quella rurale e/o mediterranea (più collettivista e pragmatica). 

Non è passato che poco meno di un secolo da quando era la norma che intere famiglie allargate abitassero insieme: si pensi agli appartamenti poveri della rivoluzione industriale, o alle dozzine di romanzi che tutti noi abbiamo letto a scuola in cui il "nucleo famigliare" costituiva di padre, madre, figli, nonni, suoceri, nuore, generi, zii, nipoti e cugini (I Malavoglia, anyone?). In zone come la valle dove abito io (immaginatevi gli Appennini descritti da Guccini, ma coi cinghiali al posto dei mulini e i lisotti al pesto invece dei tortellini) non è poi così raro trovare situazioni simili ancora oggi: io stesso conosco personalmente almeno tre persone che vivono o hanno vissuto in ville o cascine sotto il cui tetto coabitavano nonni, genitori e figli; magari su piani diversi, come fossero appartamenti separati, ma comunque sotto lo stesso tetto. 

Del resto, siamo pur sempre l'Italia, una nazione in cui "tengo famiglia" potrebbe essere scritto sulla bandiera (cit. Marco Travaglio): se abbiamo una cultura della famiglia così forte da dare origine a fenomeni come i clan mafiosi o il nepotismo, è così impensabile che qualcuno semplicemente voglia star vicino ai propri genitori, invece di sfruttarli fino ai 20-25 anni per poi abbandonarli proprio nell'ora del bisogno, cioè la loro vecchiaia? Non a caso, talvolta sono i genitori stessi che non vogliono lasciar allontanare i figli.

E sticazzi?
L'articolo di Repubblica, in particolare, cita come siano i figli delle famiglie più benestanti a rimandare di più l'indipendenza abitativa, e da un punto di vista freddamente razionale è sensato: se una famiglia possiede già una casa abbastanza grande da ospitare comodamente un secondo nucleo famigliare, che motivo logico avrebbe il figlio/la figlia di prendere e andarsene in un appartamentino in affitto, riducendo il proprio tenore di vita, magari avendo comunque bisogno di aiuti economici, quando potrebbero unire le forze e vivere tutti meglio (lui, loro, e il coniuge)? Se i genitori possiedono una cascina a tre piani con un fienile e un po' di terreno, per quale astrusa ragione autolesionistica il figlio dovrebbe trasferirsi a 20 anni per andare a stare in un monolocale, invece di magari aspettare i 30 e comprarsi una casa più adatta alle proprie esigenze, che sia davvero quella "definitiva"? 

Per il bisogno di privacy e indipendenza, per il desiderio di essere altrove, per incompatibilità, per necessità pratiche, per inseguire i propri sogni, per sfuggire da situazioni difficili, certo, i possibili motivi possono essere migliaia, e sono tutti validi; ma si tratta appunto di desideri e bisogni, ovvero ragioni soggettive e non universalizzabili. Io potrei a 22 anni sentire il bisogno di avere uno spazio mio, qualcun altro potrebbe sentirlo già a 14, qualcun altro potrebbe sentirlo ma non abbastanza da rinunciare ad altre cose considerate più importanti, qualcun altro ancora potrebbe non sentirlo affatto.

La gamma di situazioni possibili è talmente ampia che parlare per assoluti e per universali, partendo da questi dati per lanciare invettive contro i giovani "mammoni", è semplicemente idiota. Soprattutto se queste sono lanciate da persone che sono state assunte a tempo indeterminato dopo due anni di superiori e sono andate in pensione a cinquant'anni, contro giovani a cui viene chiesta una laurea quinquennale anche solo per fare le fotocopie nell'ambito di un contratto di apprendistato e che sentono parlare di alzare l'età pensionabile a 67 anni.

L'Italia non è l'America, perché giudicare la nostra situazione col metro americano? Oggi non è quarant'anni fa, perché giudicare la nostra situazione col metro del boom economico? Il pavanese affezionato alla propria terra non è il milanese cittadino del mondo, tant'è che anche i dati del Sole 24 Ore rilevano la nettissima differenza fra piccoli paesi e grandi città. Il figlio del proprietario di una villa non è il figlio dell'affittuario di un appartamento da 100 metri quadri. Il figlio di un genitore amorevole e malato non è il figlio di un ubriacone violento.

Coloro che tuonano che, a prescindere da qualunque altro fattore, lasciare casa e vivere da soli entro un certo compleanno sia l'unico e il solo modo per diventare adulti maturi in una società sana, e quindi che chi non lo fa è un mammone parassita della società fannullone o tempora o mores dove andremo a finire signora mia… ecco, forse proprio loro dovrebbero tornarci un po', dai genitori, perché mi sembra che abbiano ancora molto da crescere.


16 nov 2017

[About me/Rant] Project I.G.I., o Come ho capito di non essere più il gamer di una volta

"Think your way in, shoot your way out". Sì, ce l'ho in una di quelle edizioni secondarie con copertine orribili.
Avevo questo FPS semi-realistico con forti tinte stealth dal 2004. Me lo ricordo, perché quando ho sentito la notizia dello tsunami dell'Oceano Indiano ci stavo giocando. Me lo sono visto segnato come "non finito" sul mio Backloggery e ho deciso, d'impulso, di reinstallarlo. Anche perché mi mancava una sola missione per finirlo: ricordo le DECINE e DECINE di tentativi a vuoto, a ripetere meticolosamente le strategie vincenti per poi venire ucciso all'ultimo scontro perché mi ci ero trascinato col 20% di salute e senza medpack. 

Ciò nonostante, ne avevo ancora degli ottimi ricordi. Ah, come cambia il modo di approcciarsi alle cose quando hai la metà del tempo libero, il doppio degli anni, il triplo dello stress e il quadruplo degli impegni!  

Non voglio dire che Project I.G.I. sia una schifezza. Dico solo che se una volta mi divertivo a ritentare le missioni ancora e ancora, per farle un po' meglio, per non far scattare gli allarmi, per trovare il percorso migliore con cui headshottare tatticamente le guardie, oggi alla seconda missione mi sono scaricato una cheat per l'invulnerabilità perché mi ero stufato di ripetere sempre le stesse operazioni.

In parte, è colpa del gioco
. Le missioni sono sì lunghe e ambientate in splendide mappe vaste e non-lineari (nelle quali trovare la strada migliore per evitare pattuglie e telecamere, sfruttare i punti di vantaggio, attaccare il più silenziosamente possibile ecc. è parte integrante della sfida), ma maledizione non ci sonocheckpoint né possibilità di salvare nel mezzo della missione, il protagonista è realisticamente molto vulnerabile e i medpack sono pochi, quindi basta un errore minuscolo (magari all'ultimo sprint per l'obiettivo!) per essere rimandati all'inizio. Una roba del genere era inaccettabilmente arcaica già nel 2001.


Si hanno, sì, a disposizione tutti gli strumenti per pianificare accuratamente il proprio approccio (una mappa satellitare con anche la posizione delle guardie esterne, un binocolo che tagga automaticamente i nemici in vista, layout degli edifici abbastanza "standard" da sapere cosa si potrà trovare in ognuno di essi...), però i nemici ti vedono e centrano anche da un bunker seminterrato sulla superficie di Marte, e negli interni sono posizionati in modo da poter essere affrontati veramente solo tramite trial-and-error. Un conto è morire perché ci si è fatti scoprire da una guardia i cui movimenti si sarebbero potuti prevedere, un conto è morire perché si apre la porta di un ascensore non-aggirabile e dietro ci sono due tizi con uno shotgun. E poi, diciamocelo, quando ci sono mappe in cui il punto di spawn è direttamente sulla linea visiva di due-tre soldati, uno dei quali un cecchino in grado di stenderti con due colpi... c'è una linea abbastanza netta fra la difficoltà e la presa per il culo, e Project I.G.I. tende a scavalcarla spesso.

Spesso le missioni iniziano così, con l'intera mappa sotto di sé per pianificare il proprio percorso. Screenshot da fansshare.com.

Quindi, è un gioco molto frustrante, che richiede tanta attenta strategia quanto cieco trial-and-error, ma ha i suoi pregi e punti d'interesse, e persino d'innovazione, per l'epoca. Devo ammetterlo: la colpa di questa mia reazione è anche mia. Mia, che fra lavoro, progetti musicali, fidanzata e impegni vari non ho più tutto il tempo libero che avevo una volta. Mia, che da quando devo investire la mia pazienza su colleghi rompicoglioni, menomati mentali che non mettono la freccia in rotonda, e bestie incivili che su corriere strapiene siedono nel posto corridoio lasciando borse sul posto finestrino, non ne ho più per reggere un certo tipo di frustrazione. Mia, che da quando ho Steam e uno stipendio sono preda dell'ansia del "so many games, so little time". Mia, che dopo anni di passione e letture un minimo di concezione (quantomeno personale, quantomeno intuitiva) di cosa sia buon game design me la sono fatta, e non sono più disposto a tollerare enigmi forzati, difficoltà mal strutturate, boss osceni, controlli fatti coi piedi, e exploit spacciati per difficoltà legittima (vedi le mie recenti esperienze con I Have No Mouth and I Must Scream, Crash Bash, Dark Souls, DOTA2, e appunto Project I.G.I.). Mia, che non ho più la testa di sbattermi per ore su un singolo problema senza progredire, solo per il gusto della sfida.

Non posso non chiedermi se sia una conseguenza inevitabile dell'invecchiare, questo arrendersi prima, questa minor disponibilità a investire ore sulla ripetizione infruttuosa, questo rendersi conto che non siamo più ragazzini con tanto tempo libero e perciò che certi risultati da "agonismo videoludico" sono ormai scivolati al di là della nostra portata. Oppure, se più in generale non siano cambiati i tempi, e con un'offerta sempre più ampia e di qualità il grosso del pubblico videoludico non veda più questo medium come una macchinetta mangiamonete in cui raggiungere l'high score per farsi fighi col gruppo di amichetti. Oppure, se non sia un problema psicologico-generazionale, ché fra la sovrastimolazione dell'internet, la velocità della comunicazione moderna, la mia bassa sopportazione allo stress, e la mia storia di depressione e scarsa vita sociale ho passato troppo tempo isolato in un mondo "virtuale", lontano da quello reale, nel quale mi sono "viziato" di soluzioni immediate. O forse, se non siano semplicemente cambiati i miei gusti, che con la graduale perdita di interesse nell'aspetto "agonistico" e competitivo del gioco (soprattutto da quando ho abbandonato i MOBA) mi hanno portato a cercare il videogame come un'esperienza contenuta, personale, rigorosamente solitaria, e soprattutto lontana dal diventare un'ennesima fonte di stress e frustrazione.




Esistono delle misure oggettive per giudicare se e fino a che punto la difficoltà di un videogioco sia ben calibrata, e titoli come Project I.G.I. fanno scattare l'allarme in più punti. Tant'è che già all'epoca fu aspramente criticato per l'IA dei nemici e per la mancanza di un sistema di salvataggio. Eppure, non riesco a togliermi dalla testa la semplice constatazione che io stesso, una volta, ero quasi riuscito a batterlo; senza trucchi, senza guide, senza incazzarmi. Mentre oggi, con tutti gli anni di esperienza videoludica in più che dovrei avere, ho usato le cheat, perché la sola idea di essere rimandato all'inizio del livello prosciugava istantaneamente la mia pazienza. E non riesco a capire esattamente il perché.

Ah, incidentalmente: tredici anni di attesa, tanta fatica per scaricare le cheat che mi hanno lanciato in questa serie di ragionamenti astratti, e poi il finale del gioco fa pure cagare.

13 nov 2017

[Recensione] The Boy and the Beast

バケモノの子, 2015

L'ultima opera del mio amato Mamoru Hosoda (che ho personalmente sempre favorito a Makoto Shinkai per la conquista del mantello di "nuovo Miyazaki") parte un po' "svantaggiata" rispetto ai film precedenti, per via della mancanza dei collaboratori Sadamoto e Okudera con cui aveva prodotto i capolavori Wolf Children e La Ragazza che Saltava nel Tempo, ma raggiunge un risultato comunque coinvolgente e di qualità che, tuttavia, non lascia un impatto duraturo e dà un po' l'impressione di non saper esattamente dove voglia andare a parare. 

Bakemono no ko presenta i tratti tipici del Bildungsroman, arricchendoli con elementi fantastici, comici, da arti marziali, e con l'obbligatoria citazione a Viaggio verso occidente (nella forma degli "aiutanti" del protagonista, la scimmia e il maiale monaco); la trama segue Ren, un ragazzo di nove anni che, dopo la morte improvvisa della madre già divorziata, scappa dalla famiglia per vivere, da solo, per le strade di Shibuya. Lì viene notato da Kumatetsu, una bestia-spirito a forma di orso alla ricerca di un apprendista, e lo segue nel mondo delle bestie. Kumatetsu è uno dei due pretendenti alla successione del Gran Maestro di quel mondo, un coniglio ormai prossimo alla reincarnazione sotto forma di divinità, ma sembra essere lo sfavorito rispetto al cinghiale Iōzen, che gli è superiore sia in termini di abilità marziali che di supporto della popolazione. Kumatetsu, infatti, è malvisto a causa del suo pessimo carattere e della sua mancanza di disciplina e compassione. Ren è però stranamente ammirato dalla determinazione con cui Kumatetsu continua a combattere nonostante la mancanza di qualunque incoraggiamento dal pubblico. Il mostro e il bambino, entrambi cocciuti, entrambi burberi, vicendevolmente ostili, si troveranno nel tempo a imparare l'uno dall'altro e a maturare insieme.


Al contrario di Shinkai, che sembra partire dalla sua tipica storia di una coppia separata da circostanze straordinarie e poi cerca un espediente fantastico/fantascientifico per creare quella distanza, Hosoda sembra partire dal setting, dall'elemento fantastico, per poi finire sempre in qualche modo con l'inserirci una storia di maturazione individuale o corale in cui i protagonisti si trovano chiusi fra nature o desideri opposti. In questo caso, le tensioni opposte sono date (in modo non troppo dissimile da Wolf Children) dal mondo dei mostri contro quello umano, dalla "famiglia surrogata" dei mostri contro quella "di sangue" degli umani, da un'oscurità dell'animo umano che persino i mostri temono contro la sua plasmabilità tramite l'impegno, lo studio, la compassione, e il rapporto con gli altri. Molti sono i paralleli che si creano fra il ragazzo e altri personaggi, in particolare Ichirōhiko, lasciando intuire una stratificazione di significati non da poco. I quali, però, sembrano perdersi un po' nel proprio stesso turbinìo, nell'intreccio stesso delle varie sottotrame, facendo sì che il tutto risulti, alla fine della visione, un po' oscuro e fine a sé stesso

Manca, cioè, quel senso di aver assistito a qualcosa con un significato da portarsi dietro nelle proprie vite quotidiane, di essere stati scossi nel profondo delle proprie emozioni; il che, mi rendo conto, non è tanto un vero e proprio difetto di questo film quanto un problema delle aspettative troppo alte che il nome di Mamoru Hosoda ha creato in me. Del resto, sono stato lasciato similmente non entusiasmato da I sospiri del mio cuore dello Studio Ghibli, un ottimo e coinvolgente slice-of-life il cui unico difetto è essere semplicemente "una bella storia", senza la stratificazione di temi e messaggi di un Una tomba per le lucciole o de La città incantata. 


Tuttavia, storia e personaggi di The Boy and the Beast rimangono solidissimi e interessanti anche a livello superficiale, rendendo questo un ottimo film per famiglie. Semplicemente, non è al livello di Wolf Children. Ma ehi, siamo onesti, niente è al livello di Wolf Children.

8 nov 2017

[Recensione] Wolf Children - Ame e Yuki i bambini lupo

おおかみのこども雨と雪 - Ōkami no kodomo Ame to Yuki, 2012
Il regista Mamoru Hosoda è emerso prepotentemente sulla scena dell'animazione solo nel 2006, e tutt'oggi in Occidente è spesso un po' più in secondo piano rispetto ai più noti Makoto Shinkai, Satoshi Kon, e ovviamente Hayao Miyazaki; eppure, molti della mia generazione, inconsapevolmente, l'avevano già conosciuto bene anni prima, quando aveva diretto i primi due mediometraggi e il particolarissimo episodio 21 di Digimon Adventure (e, più recentemente, con il cupissimo One Piece: L'isola segreta del barone Omatsuri). Ricordo che già all'epoca notai la differenza fra il resto della serie e quell'episodio, perché il suo stile di disegno e di direzione era già distinto e riconoscibilissimo: l'alone di leggerezza quasi eterea, la morbidezza dei tratti, le espressioni facciali dettagliate, la dinamicità delle scene "d'azione", le peculiari scelte di colonna sonora (il Bolero di Ravel che surrealmente accompagna l'intero Digimon Adventure! Quel cazzo di coro fighissimo nella scena dell'evoluzione in Bokura no war game, benedetta l'anima di Takanori Arisawa!), quell'impostazione di alcune scene a creare momenti come di "sospensione", di silenzio, sia a scopo comico che drammatico. Solo molti anni dopo avrei saputo descrivere questo stile e attribuirlo al suo nome, ma me ne innamorai subito.

Wolf Children è il suo terzo film "solista", dopo Summer Wars e La ragazza che saltava nel tempo, e come nei precedenti si avvale della preziosa collaborazione di Satoko Okudera alla sceneggiatura e del character design dello straordinario Yoshiyuki Sadamoto (le cui illustrazioni di Evangelion dovrebbero essere tipo esposte al Louvre e agli Uffizi). Ma se il primo film era enormemente ispirato a Digimon Adventure: Bokura no war game! e il secondo era un semi-sequel del romanzo omonimo, questo è basato su una storia di Hosoda stesso.



La trama è incentrata su Hana, la protagonista, che si innamora di un ragazzo incontrato all'università. In breve scoprirà che il ragazzo è in realtà un uomo-lupo, in grado di trasformarsi a piacimento ma dalla natura mista. insieme avranno due figli, Yuki e Ame, anch'essi mezzi-lupo. Hana si ritrova così a dover formare due piccole vite senza essere ancora diventata lei stessa un'adulta, ed emerge come eroina imperfetta del film, fra le sue incertezze e i suoi errori e il suo amore, in un modo che riesce a essere sia perfettamente immerso nella specificità di questa storia (emblematica, a mio avviso, la divertentissima scena in cui, quando Yuki si ammala, Hana non sa se portarla dal pediatra o dal veterinario) sia perfettamente universale, elevabile ad archetipo delle difficoltà e delle scelte che ogni madre, ogni genitore, si trova ad affrontare. Hosoda mette in scena una versione "ingigantita" della fatica di crescere dei figli e di vederli scegliere strade che non ci si aspettava, che magari non si sarebbero volute per loro; ingigantita, eppure identificabilmente reale. Ma è importante notare come il focus sia tanto sulla sfida della madre quanto su quella dei due bambini, la cui personalità e il cui sviluppo sono presentati in modo molto intelligente, e il cui sforzo per scegliere cosa essere, per trovare il proprio posto in in un mondo a cui nascondere costantemente una parte di sé, è sì reso "straordinario" dal fatto che sono due lupi, ma non è poi così diverso da quello che si presenta ad ogni bambino, ogni teenager, e quindi ad ogni adulto che li deve guidare.

È una parola impegnativa, ma non riesco a definirlo se non capolavoro. Come la Santa Trinità (Hosoda, Okudera, Sadamoto, nel nome della Regia, della Sceneggiatura, e del Chara Design, amen) si è già dimostrata in grado di fare, anche Wolf Children gestisce meravigliosamente una serie di umori e di emozioni molto ampia: comicità, tragicità, speranza, dolcezza, tensione, gioia, e l'obbligatorio lacrimone sul solito finale dolceamaro che tanto mi piace. La regia e la musica sono qualcosa di eccezionale persino per gli standard già alti di Hosoda. Oltre a tante cose tipiche del suo stile (come quelle lunghe scene su campi lunghi senza battute, in cui sono solo le azioni ed i gesti dei personaggi a parlare), ci sono alcune sequenze semplicemente maestose, magiche, e altre in cui rivelazioni o cambiamenti sono gestiti in modo veramente geniale. Quella con la famiglia sulla neve, ad esempio, semplicemente toglie il fiato. Con quanta semplicità riesce a dare l'idea della ripetizione, della costanza di certi elementi nella vita quotidiana dei bimbi! Una nota di merito va peraltro al doppiaggio italiano e all'adattamento Dynit, molto ben fatto, e no non prendo soldi dalla Dynit per incensarli a ogni recensione. Per ora. Possiamo trattare, però, eh!


LA scena.

Insomma, lo ritengo un must, e non solo per gli amanti di anime. Un film stupendo che gestisce in maniera superba un vasto spettro di situazioni, umori ed emozioni, e lascia dentro qualcosa di umano e sovrumano al tempo stesso. Il senso della forza di un singolo e della forza di una colletività solidale, il senso della difficoltà dell'amore, il senso delle strade strane che può prendere "lo strano percorso di ognuno di noi". "Che neanche un grande libro un grande film potrebbero descrivere mai", cantava Pezzali, ma questo film forse ci va abbastanza vicino.


All'epoca dell'uscita del film, molti paragonavano Hosoda a Miyazaki (come poi fu fatto con Shinkai per Your Name, ma tant'è), ma credo fosse un paragone forzato, perché i due hanno sempre fatto cose molto diverse, nonostante la loro comune abilità di creare opere di vasta presa ma permeate di una affascinante stratificazione di temi. La mia impressione, del tutto personale, è che Wolf Children sia un pochino più "adulto" rispetto alla favola miyazakiana media, nel senso che i suoi temi centrali necessitano una prospettiva sulla vita che credo un bambino o un pre-adolescente non abbiano, ma potrei sbagliarmi. Inoltre... mi rendo conto che sto per fare una dichiarazione impegnativa, di quelle da cui non si torna indietro, però... mi è piaciuto di più di qualunque film di Miyazaki io abbia visto finora. Ecco, l'ho detto.