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25 apr 2017

[Rant] 25 Aprile: i morti sono tutti uguali?

Il 25 Aprile, la festa nazionale che unisce tutti gli italiani sotto un'unica bandiera: quella dell'obbligatoria polemica annuale, che si ripete con una ciclicità e una costanza tale che potrei recitare a memoria gli argomenti di entrambe le parti. È l'una di notte al momento in cui sto scrivendo, e ho già letto il primo "E allora le foibe?", regolare come un orologio. Le sapete tutti: c'è chi vuole celebrare i morti di Salò perché i morti sono tutti uguali, c'è chi combatte l'adorazione dei partigiani ricordandone i crimini, c'è chi inevitabilmente cita le vittime del comunismo, e c'è l'inevitabile revisionista che dice "non siamo liberi per un cazzo, siamo sotto la dittatura dei comunisti/dell'Europa/dell'America/di (*inserire presidente del consiglio attuale qui*)". 

Facciamo un paio di premesse.

1) A prescindere da qualunque cosa, questa è la commemorazione di un evento storico che ha fatto finire una dittatura (vera, riconosciuta dalla Storia come tale) e una guerra, e dei valori che hanno ispirato la resistenza a tale dittatura e a tale guerra. Parlare delle foibe, del comunismo, di dittature moderne più o meno fantasiose, dei morti di Salò, dei crimini dei partigiani, è semplicemente fuori tema. È come dire a Natale "eh ma allora il Venerdì Santo?". Non c'entra un belino. State sulla consegna, ché poi la maestra vi mette un 4.

2) Sì, i partigiani non erano dei santi. Sì, ci sono state esecuzioni sommarie, anche di civili, per "giustizia politica", ci sono state lotte di potere, stupri, regolamenti di conti post-bellici, e crimini di guerra. Mica si può negarlo. "Eh grazie al cazzo, mica siamo in seconda elementare che vogliamo parlare della Storia in termini di Bene Assoluto e Male Assoluto", direbbe chiunque sappia un minimo di Storia. Certo, sentire un neo-fascista rinfacciare i crimini dei partigiani è un po' come sentire Giuliano Ferrara rinfacciare i chili di troppo di Renzi, ma OK, dai. 
Del resto erano un gruppo eterogeneo di persone di estrazioni sociali e idee politiche diversissime (dai comunisti ai cattolici, dai monarchici ai liberali) che agivano in gruppi individuali, a volte nemmeno coordinati, talvolta pure in conflitto (non tutte le formazioni avevano l'organizzazione e l'abitudine alla clandestinità che avevano i GAP del PCI). Persone che uscivano da anni di oppressione e di inquadramento culturale totalizzante; che magari avevano combattuto in guerra, che magari avevano perso parenti e amici al confino o nei campi di concentramento o in quella demenziale campagna di in Unione Sovietica, ed erano quindi in cerca di vendetta. Insomma, non un esercito inquadrato e ben organizzato, che esegue ordini precisi impartiti da una catena di comando e da una politica governativa di uno Stato. Come erano invece quegli altri.

3) Come ho già accennato nella mia recensione di Velvet Assassin, non ci sto a demonizzare ogni singolo individuo, come un tutt'uno indistinto, dell'esercito fascista di cui sopra. Sicuramente ci furono soldati convinti e ben felici di consegnare gli ebrei ai treni, ufficiali sospettosamente zelanti nell'ordinare rappresaglie su civili innocenti, e qualche mostro che magari ci pisciava pure sopra al cadavere della contadina appena stuprata, ridendo mentre lo fa. Allo stesso modo, però, ci furono anche molti proletari reclutati a forza e mandati a morire in una guerra di cui poco capivano, lasciando a casa dei genitori malati, una fidanzata incinta, e un cagnolino che ogni giorno aspettava inutilmente il loro ritorno guaendo davanti alla porta; non perché credessero negli stessi ideali del fascismo, magari anzi lo avversavano, oppure perché credevano in un solo ideale, quello della patria, in un momento storico in cui il senno di poi non permetteva a tutti di vedere con la stessa limpida chiarezza di oggi quale fosse la parte giusta.

Detto questo. I morti sono tutti uguali? I morti di Salò meritano lo stesso rispetto dei morti partigiani o civili?

Dal punto di vista umano, sta alla sensibilità di ognuno. Un morto è un morto, soprattutto laddove non si possa distinguere con chiarezza se questo morto fosse un criminale in delirio d'onnipotenza o un eroe, un convinto assassino antisemita o un diciottenne spaventato che eseguiva gli ordini di un tizio dal forte accento romagnolo che gesticolava in modo buffo. Ma dal punto di vista etico, politico e storico, no: non si può equiparare chi è morto per una causa sbagliata e chi è morto per una causa giusta; chi ha commesso atrocità di propria iniziativa in quanto parte di una banda di combattenti autonomi, e chi le ha commesse in quanto membro dell'esercito regolare di una nazione che giustificava e anzi razionalizzava tali atrocità e le eseguiva con fredda efficienza; chi ha combattuto, consciamente o meno, dal lato giusto della Storia e chi dal lato sbagliato.

24 apr 2017

[Recensione] La storia della principessa splendente

(かぐや姫の物語, Kaguya-hime no monogatari, 2013)

Il regista Takahata Isao, co-fondatore dello Studio Ghibli, è sempre rimasto in ombra rispetto al collega Miyazaki Hayao, nonostante sia responsabile di capolavori come Una Tomba per le Lucciole. In questa sua ultima opera, frutto di ben otto anni di lavorazione, Takahata presenta una storia emotivamente ricca e potente, nonostante il materiale tutt'altro che originale, con uno stile sperimentale e classico al tempo stesso.

La trama, infatti, è basata sul Taketorimonogatari (Storia di un tagliabambù), un racconto popolare giapponese che viene fatto risalire addirittura al X secolo[1], di cui ricalca gli eventi principali dando però uno spin molto diverso al personaggio principale. Un anziano tagliabambù, durante un normale giorno di lavoro, nota una pianta che brilla di una luce eterea; avvicinatosi, da questa nasce un fiore che contiene una minuscola, ma splendida principessa, che presto si trasforma in un neonato. L'anziano e la moglie, che non hanno figli, la crescono con cura e amore nella vita bucolica dei contadini di montagna, alla quale la ragazza (che cresce con una rapidità innaturale) si abitua felicemente. Tuttavia, il padre è convinto che sia suo compito divino dare a questa fanciulla donata dal cielo una vita nobile degna della sua origine.

La storia quindi è molto semplice e, per chi ha letto il Taketorimonogatari, già nota nei suoi sviluppi importanti, ma Takahata e la sceneggiatrice Sakaguchi Riko riescono a darle uno spin in più. Lo fanno introducendo una serie di ulteriori conflitti nel personaggio di Kaguya, una tipica ragazza Ghibli vivace e amante della vita in montagna che si ritrova presto catapultata nella vita della capitale, lussuosa ma regolata dalle rigide norme sociali del periodo Heian, fra studi, reclusione e nobili pretendenti. Ho trovato interessante come quest'aspetto venga incapsulato perfettamente nei dialoghi, con il padre che si sforza ad adottare le più complesse forme di linguaggio onorifico keigo, risultando però forzato e innaturale, mentre Kaguya alterna abilmente i due stili di linguaggio adottando quello di corte come una facciata, una parte da recitare. Ottima, in questo senso, la resa nella traduzione italiana[2]. Come ci si può aspettare dallo Studio Ghibli, c'è nel film un bilancio perfetto fra comicità e dramma, favola e un accenno di temi sociali, realismo (il periodo storico è rappresentato con una cura formidabile, sia nella vita nobiliare che nella vita contadina) e fantastico, fino a un climax di pura magia che cade repentinamente in un finale sorprendentemente tragico e intenso nonostante la sua perfetta fedeltà al racconto originale.


Volendo, se ne può persino estrapolare un accenno di conflitto di classe e, in parte, di genere: Kaguya protesta gli standard di bellezza e comportamentali che ci si aspettava dalle dame nobili dell'epoca (norme molto rigide che limitavano molto gli spazi e le libertà delle donne nobili, ma al tempo stesso garantivano loro ogni agio, una servitù costante, studi artistico-letterari ampi e avanzati, e un’aura di intoccabile superiorità tale che nemmeno ai loro pretendenti di più alto rango era consentito anche solo vederle in faccia prima del matrimonio), e anela alla semplicità della vita di campagna (anche se questa significava lavorare come e quanto gli uomini[3]). Inoltre, rifiuta e combatte la sfacciataggine e la "violenza sociale" che solo l'Imperatore poteva permettersi.

Lo stile di disegno è totalmente diverso da quello a cui può essere abituato l'estimatore di Miyazaki: è semplice, ricco di colori pastello, può sembrare persino abbozzato e grezzo rispetto alla grandiosità di un Castello errante di Howl. Ma proprio in questa semplicità si nasconde, a mio avviso, il genio di Takahata: è un'estetica, infatti, che riprende lo stile delle pitture yamato-e e ukiyo-e[4], catturando quindi anche visivamente l'antichità della storia, dandole un aspetto più "sfumato", distante, da favola, appunto. Sembra davvero di vedere, fin dalle prime inquadrature della foresta di bambù, un ukiyo-e di Katsushika Hokusai prendere vita, dalle piante ai palazzi, dagli abiti alle espressioni. Il tutto, però, senza rinunciare alla cura per i dettagli e al dinamismo dell'animazione Ghibli. Il risultato è semplicemente straordinario, e eleva questa storia (letteralmente millenaria, eppure con ancora così tanto potenziale per emozionare e per risultare, in qualche modo, moderna) su un livello superiore rispetto a quanto avrebbe potuto fare uno stile "alla Miyazaki".

Se a tutto questo uniamo un doppiaggio di altissimo livello, e una colonna sonora straordinaria che unisce alla partitura orchestrale elementi di musica tradizionale giapponese, sotto forma di una canzone-filastrocca popolare[5] e di accenni di musica gagaku, appare chiaro che siamo di fronte a un capolavoro vero, di stile e di emozione, purtroppo passato tragicamente in sordina. Mi sento di consigliarlo davvero a tutti, essendo un film veramente per famiglie che può fungere anche da interessantissimo sguardo sulla storia e sulla cultura giapponesi. I fan dello Studio Ghibli lo apprezzeranno di sicuro, anche se qualcuno potrebbe avere difficoltà a superare il primo impatto con un disegno così profondamente diverso da quello, per così dire, miyazakiano, e per gli appassionati di anime in generale mi sento di definirlo un must.


[1] Viene considerato il più antico esempio di narrativa in Giappone, ed è stato già adattato in molti film e manga. Fra questi, ad esempio, La regina dei mille anni di Leiji Matsumoto.
[2] Chi conosce il giapponese sa che tradurre efficacemente il keigo in un’opera in cui deve risultare il suo contrasto con la parlata piana è un incubo.
[3] Come spesso succede, l’idea che nel passato le donne fossero sempre e totalmente sottomesse come oggetti risulta una semplificazione molto ingenua, che butta classi e ambienti molto diversi in un unico calderone, ignorando le complessità e le stratificazioni sociali di ogni specifico periodo storico in ogni specifica cultura.
[4] Dei periodi Heian e Edo, rispettivamente.
[5] In realtà scritta da Takahata stesso, ma perfettamente ascrivibile alla tradizione contadina giapponese sia per il testo che per la scala usata.
 

20 apr 2017

[Music/About me] STRAIGHT TO PAIN - Earthless (my album!)

I know that self-promotion is lame, but if I had any dignity I wouldn't be here, so I'd like to use this space that has been kindly given me by myself to advertise a little project I took part in.
 I joined Straight to Pain, a metalcore band from Savona, in 2015, as a bass player. Neither metalcore/death metal nor bass guitar itself were ever truly my cup of tea, but the risk I took joining that band proved to be one of the best decisions in my life. I met wonderful musicians and friends who rekindled the fire of my creativity, I'm having a hell of a good time, and I achieved something I had dreamt of for a long time: I recorded and released an album.

An EP, to be precise: Earthless. Four tracks out of five had already been composed and arranged by the time I joined, so I just had to learn and adapt the bass parts left by my predecessor; but the fifth, "Let It Burn", is entirely a creature of mine, music and lyrics. We could call this EP a concept album, in the sense that all songs share a common theme: the end of all things, the spiritual and physical death of the world, caused by the sins and blindness of a mankind that has lost all chances of stopping its descent on a slippery slope to hell. To convey this feeling, we opted for a "dirty" sound, as close as possible to our live sound. Drums, bass and guitars were recorded separately but using our skins, our effects, our amps, no computer processing. Musically, it was a huge step forward compared to the band's previous work, Horizon Calls, marking a shift towars a less metalcore and heavier, more varied sound, mixing elements from black metal (Roots of Desperation, Everything Dies), groove metal (No One Left to Save), thrash metal (Everything Dies, No One Left to Save), and melodic death metal (Whisper of War, Let It Burn); and also, because our Simone's growl had greatly improved, I daresay.

Sure, it isn't an album for everyone, death metal as a genre is easy to dislike; and naturally we do have complaints, regrets, things we'd change etc., we wouldn't be musicians otherwise. But, I personally am very proud of this work. We received good reviews, and the fact that many had trouble classifying us squarely is, in my book, a good sign. 

I'll leave you with a promotional video for the album, and all relevant links. If you feel like it, please do buy it!


 

15 apr 2017

[Recensione] Death By Degrees

Se sprecare le buone idee fosse un reato, questo gioco si prenderebbe la pena capitale. Tekken's Nina Williams in: Death By Degrees è un titolo poco noto dell'era PS2, una sorta di cult con potenzialità grandiose sprecate malamente, in un modo tale da ammazzare nella culla qualunque idea la Namco potesse avere avuto di produrre altri spin-off su personaggi di Tekken abbastanza interessanti da meritare qualcosa di più di un semplice picchiaduro.

Si presenta, oserei dire, benone: un action in terza persona con il combattimento di un Devil May Cry, l'esplorazione e gli enigmi di un Resident Evil, e l'atmosfera e lo stile narrativo di un Metal Gear Solid. La trama ha poche pretese, ma è funzionale: Nina Williams è la "spazzina" di una squadra di agenti della CIA che si infiltra sulla nave di una misteriosa compagnia legata alla recente, eclatante sparizione di una nave nel Triangolo delle Bermuda. Dovrà completare una serie di obiettivi per svelare i misteri di questa compagnia, che la porteranno ad affrontarne i vertici e a fare i conti col proprio passato.

Si può notare, nello svolgimento della trama, molti tratti che sembrano rifarsi alla scuola del primo Metal Gear Solid: tradimenti, doppi giochi, uno scienziato da recuperare e scortare, lunghe spiegazioni tramite cutscene, una squadra di boss eccentrici, un enigma preso di peso dalla card termo-mutante di Metal Gear Solid, l'inevitabile colpo di scena, e l'ancor più inevitabile duello con la sorella Anna. Il tutto però trattato con una superficialità confusionaria che rende la storia spesso difficile da seguire, e alla fine della fiera abbastanza insulsa. Il che sarebbe accettabile, in un gioco non incentrato sul proprio aspetto narrativo, se non fosse che qua e là alcune buone idee saltano fuori: l'arma segreta del nemico è abbastanza originale, il colpo di scena è decisamente inaspettato, e la vaga esplorazione del passato di Nina (molto limitata, ma meglio che niente) è quello che sicuramente molti fan si aspettavano. Dispiace vedere degli spunti interessanti buttati alla belin di cane in una trama zoppicante.

Il gioco è stato anche venduto sulla sempreverde rivalità fra le Williams, che però si rivela un elemento minore nella trama.

Il gameplay è un tipico misto di action ed esplorazione. Ci sono alcuni enigmi moderatamente impegnativi, e numerosi mini-giochi che arricchiscono l'esperienza e la rendono più varia, ma il vero focus è, come prevedibile, sul combattimento. Si passerà molto tempo nell'inventario, a gestire le varie armi raccolte o a usare cure o potenziamenti di vario tipo; potenziamenti che, curiosamente, prendono la forma di... olii abbronzanti. 

Ecco, giò che siamo sull'argomento: è impossibile non notare una certa tendenza al fanservice, che però al contrario di altri io non ritengo così eccessiva. Sì, Nina compare in bikini un paio di volte; sì, il primo costume di Nina è un cocktail dress che definire "provocante" è dir poco (ma ha senso nel contesto della storia, giuro!); sì, gli altri costumi di Nina si rovinano col tempo scoprendo sempre più le sue... ehm... grazie; e sì, le tette di Nina hanno delle jiggling physics sorprendenti per l'epoca; ma nel complesso evita di scadere... TROPPO nel cattivo gusto. Comunque è tutto molto apprezzato, eh! Di cattivo gusto, ma apprezzatissimo. Peccato che il modello di Nina sia un po' troppo diverso da come appare nei Tekken: il viso è completamente diverso (assomiglia più a una mia amica che alla Nina Williams di Tekken 4, vi giuro), e il fisico è troppo magro e minuto per un personaggio che è stato sempre presentato come atletico e muscoloso. Confrontate le spalle di Nina in Tekken Tag 2 con quelle che ha qui, per intenderci. Le prime sono spalle di una che se ti tira un pattone giri per una settimana, le seconde sono quelle di una modella.


Sono rimasto piacevolmente sorpreso dalle boss fight, che si sono rivelate non solo varie e impegnative ma anche discretamente creative. Una, in particolare, si svolge in un incubo in cui la protagonista deve affrontare il suo avversario e, allo stesso tempo, proteggere una sé stessa bambina che viene attaccata da alcuni "zombie", i quali rappresentano i cadaveri di quando, da piccola, aveva assistito alla sparatoria in cui era rimasto ucciso suo padre. Un lodevolissimo esempio di ludonarrativa che oserei dire degno di Metal Gear Solid stesso.

Tutto questo viene purtroppo tragicamente rovinato da un piccolo, ma significativo particolare: i controlli. Giuda boia, è assolutamente ingiocabile. Qualche genio del team di sviluppo, infatti, ha avuto la brillante idea di legare gli attacchi alla levetta analogica destra. In teoria, immagino, questo avrebbe dovuto facilitare la scelta del bersaglio in situazioni in cui ci si trovi circondati da nemici (ovvero, sempre); in pratica, l'impossibilità di legare con precisione un movimento "digitale" (un pugno, un atto unico e preciso) a un'interfaccia "analogica" fa sì che gli attacchi vadano un po' dove vogliono. Non è affatto raro vedere  la nostra letale assassina prendere a calci l'aria mezzo metro a destra del nemico a cui puntava, o addirittura alle proprie spalle perché il gioco ha registrato un movimento rotatorio come un movimento verso il basso. Ed è davvero un peccato, perché la ricchezza di mosse e combo possibili (alcune prese di peso dai Tekken!) poteva rendere Death By Degrees un action divertente, frenetico, e con una notevole complessità; ma come si aspettassero che il giocatore sarebbe mai stato in grado di fare decine di mosse diverse esclusivamente coi due analogici è un mistero inspiegabile. 

Non solo lo schema di controlli è tutorializzato veramente male, ma è proprio una pessima idea alla base: quando due movimenti sono un "premere la levetta due volte", e quando sono un "premere la levetta rapidamente"? Perché mettere alcuni comandi basati su una rotazione di 360° e altri basati su movimenti avanti-indietro, se poi il gioco li confonde continuamente? Ci sono decine di combo e mosse acquistabili, eppure queste funzionano come dovrebbero, a essere buoni, una volta su quattro. Ci ho giocato più di venti ore, e non sono mai riuscito a fare affidamento su altro oltre all'attacco base e alla presa base, perché ogni volta che tentavo una mossa più complessa dovevo pregare gli dei di tutte le religioni che il gioco non decidesse di registrare un movimento rotatorio come un movimento avanti-indietro o viceversa. Lo stesso ovviamente vale per le schivate (cruciali in molte sezioni del gioco), per le parate, che sono state inspiegabilmente legate a un movimento della leva destra verso il nemico che sta attaccando (esatto: attaccare e parare sono lo stesso comando), e per gli attacchi con le armi bianche e da fuoco (e se le armi bianche si consumano solo all'impatto, lo stesso ovviamente non vale per le munizioni; e sprecare mezzo caricatore per colpire l'aria, vi assicuro, è un insta-porcatroia).

Modalità cecchinaggio.

Ma non finisce qui: la telecamera è a inquadrature fisse, come nei primi Resident Evil. Il risultato, prevedibile per chiunque, è che nel bel mezzo di un combattimento basta un passo nella direzione sbagliata per ritrovarsi con un improvviso cambio d'inquadratura, magari con un'inversione della prospettiva e, con essa, dei comandi. Provateci voi a giocare bene a un action se ogni cinque secondi la sinistra diventa destra e l'avanti diventa indietro come nel Parlamento italiano, se la prospettiva vi rende impossibile capire la distanza fra voi e i nemici, e se a volte addirittura un oggetto o un muro viene a coprirvi la visuale del personaggio. 

Un altro selling point del gioco erano i cosidetti "critical strike", ovvero la possibilità di usare un indicatore di concentrazione per sferrare alcuni colpi mirati al corpo dell'avversario: il tempo rallenta, si vede il nemico puntatoa raggi X, e si può attaccare un punto critico con tanto di animazione del bersaglio che si spezza. Il problema? Non serve a un cazzo. O meglio: serve ad avere, per così dire, un "colpo gratis", per poter colpire un avversario singolo con un attacco potente senza ritorsioni, ma se pensate di poter usare questa feature tatticamente, ad esempio per disarmare o rallentare un soldato particolarmente pericoloso, vi sbagliate: il nemico a cui avrete appena fatto esplodere il cranio e entrambi i femori cadrà a terra, si rotolerà per un paio di secondi, e poi si alzerà e ricomincerà a tirarvi calci con le gambe che gli avete appena spezzato. Ecco, questa meccanica è il simbolo del gioco: una bella idea implementata alla belin di cane.

Ora, mettete assieme tutto questo. Immaginatevi un'arena circolare chiusa, con spuntoni sulle pareti, con un boss che vi spara contro continuamente mentre voi avete solo calci e pugni. La schivata funziona una volta su tre. Le mosse speciali una volta su quattro. La telecamera si sposta di continuo, e in qualche modo riesce sempre a posizionarsi in modo da mettere il pistolero fuori visuale. La prospettiva è tale da rendervi difficilissimo capire dove vi trovate rispetto al vostro avversario e rispetto alle lame sui muri. Gli attacchi hanno una discreta probabilità di finire a vuoto, o per la prospettiva o perché la levetta analogica non va dove volevate voi. Il risultato è un ovvio dover riprovare più e più volte, ripetendo tutte le azioni dall'ultimo save point, con tutte le lunghissime schermate di caricamento e le cutscene del caso. «La conclusione è implicita ma ovvia: porcatrota o vaffanbrodo.» (cit)

Questo posto. Questo posto è un incubo. Panty shot a parte.
 
E allora io mi chiedo: siete la Namco, porca puttana. Mica uno studiolo di inesperti. La Namco. Fate picchiaduro da una vita. Possibile che nessuno, non un designer, non uno sviluppatore, non un tester, neanche uno si sia alzato e abbia detto "No, questo sistema è semplicemente impresentabile, è una follia rilasciare al pubblico un simile bordello e sperare che basti il culo semiscoperto di Nina Williams a farci perdonare"? Capisco la voglia di sperimentare soluzioni nuove, ma trovo inconcepibile che un sistema di controlli e di telecamere del genere non sia stato bocciato in fase di testing.

Purtroppo, basta questo a trasformare un titolo altrimenti solido, con discreto replay value e un gameplay complesso e intrigante, in una cavalcata di imprecazioni e frustrazione. Alla fine della fiera, quindi, Death By Degrees è un gioco per collezionisti e poco più. Non esplora abbastanza il personaggio di Nina e la sua rivalità con Anna (nonostante un paio di scene carine) per renderlo interessante ai fan di Tekken; anzi, non è nemmeno abbastanza fedele al canon prestabilito (basti pensare al fatto che Nina, un'assassina al soldo di mafie e corporazioni, sia diventata senza spiegazioni un'agente CIA; prevedibilmente, è stato de-canonizzato). Non ha abbastanza trama o personalità per renderlo interessante come gioco a sé stante. Le poche caratteristiche "uniche" che ha sono implementate alla belin di cane, o sono proprio delle pessime idee in partenza. Resta solo una collezione di buone idee sfruttate male. Che nonostante tutto, maledizione, non posso dire di aver detestato, perché di pregi ne ha, di divertimento ne ha e nemmeno poco, ma quando dopo più di venti ore di gioco ancora trovo impossibile aumentare la difficoltà oltre il livello principiante, non posso, con tutta la buona volontà del mondo, con tutto l'amore che ho per le Williams, considerarlo un gioco fatto bene.