Argomenti

25 feb 2017

[Rant] Il difficile confine fra verità e opinione

In qualunque campo in cui gli esseri umani si trovano a discutere, ma soprattutto in quelli che hanno una qualche rilevanza globale (politica, morale, etica, arte), uno dei problemi più grandi da affrontare riguarda il relativismo: quanta parte della mia opinione è oggettiva, insindacabile, dimostrabile, e quanta parte è invece opinabile, frutto delle mie sensibilità, delle mie esperienze, dei miei gusti, del mio modo di vedere il mondo? Il che si traduce in: fino a che punto una certa opinione è libero pensiero da proteggere e rispettare, e fino a che punto è invece un’opinione sbagliata, da sradicare per garantire il miglior progresso possibile? 

Perché se escludiamo quelli più psicopaticamente estremisti e volti all’odio, tutti i gruppi politici, religiosi ecc. hanno di fondo lo stesso scopo: migliorare la condizione umana. Le differenze fra le ideologie nascono su cosa si intende per libertà, cosa si intende per eguaglianza, cosa si intende per felicità e cosa un intralcio ad essa, quanta importanza si dà al singolo individuo e quanta alla collettività, quale e quanto grande sia la collettività a cui ci si riferisce, cosa si considera un problema e cosa no, quando sia meglio concentrarsi sul lungo termine invece che sul breve termine e vice versa ecc. Persino l’estremista religioso che vuole vietare l’aborto e l’omosessualità, per quanto possa risultare odioso alla maggior parte delle persone, nella sua testa agisce a fin di bene: “curando” una persona dalla sua omosessualità, pensa di salvarla da un’eternità di tormento e sofferenza lontano dalla grazia di Dio che invece garantisce felicità imperitura. Scusate se è poco. 

L’esempio che faccio sempre, fin da quando studiavo i sofisti al liceo, è questo: poniamo che in una certa stanza ci siano 21° C; qualcuno potrebbe considerarlo caldo, qualcun altro potrebbe considerarlo freddo, qualcun altro potrebbe parlare di 70° Fahrenheit; queste sono tutte opinioni, punti di vista, basati su uno stesso fatto oggettivo, e sono, come tali, da rispettare. Ma se arriva una quarta persona che dice che in realtà ci sono 30° C, questa persona SI SBAGLIA, punto. La sua non è un'opinione valida, è un errore. Forse sta mentendo volutamente, forse ha il termometro rotto, forse ha letto male il display, forse ha sbagliato il calcolo, però si sbaglia; e se insiste a dire che ci sono 30° C nonostante gli venga dimostrato il contrario, allora o è un disonesto oppure è un imbecille. La maggior parte delle situazioni, però, non è così semplice. Facciamo qualche esempio: 

Il compito della discussione è risalire, dalla dialettica fra quadrato e cerchio, al cilindro, e capire che quello che diceva di vedere un triangolo si sbagliava.

Esempio 1: «La trilogia prequel di Star Wars fa cagare»        
Questa è, ovviamente, un’opinione personale frutto di gusti, priorità, sensibilità. C’è chi non vede i difetti, c’è chi li vede ma li ignora, c’è chi li vede ma pensa che i pregi siano sufficienti a coprirli, c’è chi non li vede, c’è chi aveva aspettative più alte o più moderate. L’unica opinione oggettivamente sbagliata è quella di chi considera il proprio odio o amore per i film qualcosa di inoppugnabile. 

Esempio 2: «I dialoghi d’amore della trilogia prequel di Star Wars sono scritti male»       
Qui, pur essendo esattamente nello stesso ambito, si va su un aspetto più tecnico, che grazie a una vasta letteratura a cui fare riferimento, alle comuni esperienze umane ecc. può essere almeno in parte quantificato oggettivamente: sì, sono, oggettivamente, scritti male. Se sia un difetto tale da rovinare completamente il film, se sia “compensato” da altri aspetti della scena quali recitazione, colonna sonora, mythos ecc., quello è opinione e interpretazione. Anche nel giudizio artistico, quindi, c'è un mix di soggettività e oggettività. Come dire: «i Blind Guardian fanno schifo» vs. «i Blind Guardian sono banali e suonano male». La prima è un'opinione rispettabile, la seconda è un'idiozia dimostrabilmente falsa che non può e non deve essere rispettata. 


Esempio 3: «Sulla pasta col tonno non ci va il parmigiano, il pesto con gli anacardi è un crimine»     
Per quanto io scherzi sempre facendo il purista culinario, qui si parla di cibo. Di gusto. Il gusto è talmente una questione di gusti che i gusti giustappunto si chiamano gusti. Se date a me della focaccia alta, molle e senza olio potrei rompervi il piatto in testa, ma in discussioni serie non sosterrò mai che sia oggettivamente peggiore, e porco giuda io nella pasta col tonno ci metto sempre un pochino di parmigiano e viene una delizia. Basta non chiamarli “pasta al tonno tradizionale” e “pesto alla genovese”, e fate un po’ come volete. 


Esempio 4: «La squadra sportiva X è migliore della squadra sportiva Y»
Qui già si entra in un campo più grigio. Certo, si può citare il fatto che la squadra X abbia vinto tre coppe in un anno e la squadra Y nessuna, che X abbia battuto Y l’altro giorno, e già c’è una base abbastanza solida per considerare questa affermazione vera. Però sono molti i fattori che non vengono tenuti in considerazione. Magari X è forte in attacco mentre Y è forte in difesa e mannaggia proprio quel giorno il miglior difensore di Y è rimasto a casa con la diarrea. Magari Y è piena di giocatori finlandesi e ha sempre giocato con un caldo infernale e un’umidità che non ti dico. Magari ci sono stati più errori arbitrali che hanno favorito X che errori arbitrali che hanno favorito Y. Magari X ha commesso il doppio dei falli. Magari i tornei in cui hanno gareggiato avevano regole tali da favorire implicitamente lo stile di X rispetto a quello di Y, e l’anno prossimo le regole cambieranno.   
Insomma, c’è un dato oggettivo, ma ci sono anche variabili non incluse in quel dato, tali da lasciare un certo spazio di interpretazione e soggettività e da non permettere un giudizio indiscutibile e totale[1].  


Esempio 5: «Gli immigrati portano invasione culturale e gli danno pure 35€ al giorno» 
Ora entriamo nelle cose serie, ma siamo ancora nel facile. No, gli immigrati non prendono 35€ al giorno (sono le cooperative che li gestiscono che prendono un massimo di 35€ a ospite, coi quali pagano pulizie, stipendi dei dipendenti, cibo ecc.). No, l’ibridazione razziale e culturale è il modo in cui la storia dell’umanità è andata avanti fin dall’alba dei tempi, come può confermare uno studio anche superficiale di linguistica diacronica (o anche solo una sfogliata a un libro di storia delle medie).
Sono affermazioni false, e possiamo dimostrarlo. Chi le sostiene o mente, o distorce, o è stato ingannato, oppure si sbaglia. Nel nome di una discussione più sana, più produttiva, che davvero porti alla risoluzione dei problemi, bisogna impedire la propagazione di queste falsità, e spiegare a chi le pensa come e perché si sbaglia, in modo che corregga la propria opinione[2]. 


Esempio 6: «Una donna su tre verrà violentata nel corso della sua vita, e le donne guadagnano meno degli uomini per lo stesso lavoro»       
Qui si è in un campo più delicato e sfumato, ma è ancora abbastanza facile. No, una donna su tre non verrà violentata nel corso della sua vita: lo studio ISTAT cui si fa riferimento con quel dato mette assieme ogni tipo di violenza (fisica e psicologica, grave o lieve, reale o percepita) lungo un periodo storico lunghissimo, affidandosi esclusivamente ai ricordi delle intervistate, e con questionari che mettono sullo stesso piano lo stupro, le minacce, il ceffone durante una rissa e il “sorellina, quel taglio di capelli ti sta una merda” (non sto scherzando, andate a leggere il questionario, pagina 14!). No,
le donne non guadagnano meno per lo stesso lavoro, il dato si basa su una media che non tiene conto non solo di differenze in termini di ore lavorate o di istruzione, ma nemmeno di tipo di lavoro (ovvero, mette nello stesso calderone bidelle e amministratori d'azienda, segretarie e lavoratori fognari, piloti d’aereo e autisti dello scuolabus di Rocchetta di Cengio; e, statisticamente, le donne tendono a preferire campi in cui le paghe sono più basse; prendiamocela col libero mercato, il mio nemico giurato).     
Sono affermazioni non interamente false, ma ferocemente distorte, e possiamo dimostrarlo. Chi le sostiene o mente, o è stato ingannato, oppure si sbaglia. Nel nome di una discussione più sana, più produttiva, che davvero porti alla risoluzione dei problemi, bisogna impedire la propagazione di queste falsità, e spiegare a chi le pensa come e perché si sbaglia, in modo che corregga la propria opinione
[2]. 

Esempio 7: «I cambiamenti climatici non sono causati dall’uomo, il global warming è una menzogna» 
Per quanto sia vero che nessun modello scientifico è un dogma inappellabile, e che ci sono numerosi scienziati di questa opinione, una
maggioranza assolutamente schiacciante degli specialisti del settore è convinta, prove alla mano, di un decisivo fattore antropico nel riscaldamento globale. C’è spazio per metterla in discussione, ma per farlo servono prove e argomenti ben più solidi di “oggi fa freddo” o “il mio appartamento è chiuso, la mia lacca non può bucare l’Ozono”[3].
Quelle dell’esempio sono quindi affermazioni con poche argomentazioni a favore e molte contro, per cui per quanto non siano inappellabilmente false per se, sostenere che siano certamente vere senza prove è inappellabilmente una falsità. Nel nome di una discussione più sana, più produttiva, che davvero porti alla risoluzione dei problemi, bisogna impedire la propagazione di queste falsità, e spiegare a chi le pensa come e perché si sbaglia, in modo che corregga la propria opinione
[2]. 

Esempio 8: «È giusto applicare la pena di morte ai criminali peggiori»   
Qui si entra davvero nel difficile, perché si entra in un campo in cui si mischiano fattori pratici e fattori etici, dati misurabili e dati impalpabili. Dove mettiamo l’asticella per decidere quali siano i criminali peggiori? Quale consideriamo essere lo scopo principale del sistema giudiziario: riabilitazione, rimozione di un pericolo, o compensazione della vittima? Chi decide quando un certo criminale è irrecuperabile, e in base a quali principi? E anche in quel caso, lo Stato ha il diritto di togliere la vita? Io, per esempio, sono dell’idea che la pena di morte debba essere un’extrema ratio a cui ricorrere solo in casi eccezionali in cui la riabilitazione sia impossibile, la compensazione adeguata irraggiungibile, e la stessa esistenza di questi criminali costituisca un pericolo per la società[4]; ma è solo la mia opinione, basata sia su ragionamenti logici che su mie sensibilità personali, e quindi la discussione (a patto che sia informata e rispettosa) è fondamentale per confrontare le argomentazioni, promuovere studi adeguati, limare i reciproci estremismi, e trovare la miglior direzione possibile.


Esempio 9: «L’aborto è un diritto inalienabile che riguarda solo il corpo della donna»       
Non solo siamo in un campo in cui si mischiano fattori pratici e etici, oggettivi e soggettivi, ma in cui si scontrano diritti difficili da conciliare. La scienza può dirci a quale punto della gravidanza un embrione diventa feto e può ipotizzare quando sviluppi una qualche autocoscienza, ma non ci può dire se e quando l’embrione debba essere considerato “vita umana”, e se valga più o meno della vita e della libertà della madre. Uccidere quella che potrebbe essere una vita umana è sempre giustificabile? Fino a che punto lo Stato può obbligare una persona a compiere un gesto che per un motivo o per l’altro ritiene moralmente ripugnante? Quanto è importante la disponibilità a praticare l’aborto (che secondo dati ISTAT interessa lo 0,76% delle donne; ancora meno considerando la percentuale di aborti ripetuti e sottraendo gli aborti terapeutici, che non sono coperti dall'obiezione di coscienza) per una categoria medica che si occupa prevalentemente di altri aspetti della salute di tutte le donne? Le considerazioni pratiche e etiche sono molte e di difficile districamento. Io ritengo che l’attuale legge italiana[5] sia vicina ad un equilibrio fra i tre diritti in contrasto[6], ma è solo la mia opinione, basata sia su ragionamenti logici che su mie sensibilità personali, e quindi la discussione (a patto che sia informata e rispettosa) è fondamentale per confrontare le argomentazioni, promuovere studi adeguati, limare i reciproci estremismi, e trovare la miglior direzione possibile in cui spingere lo Stato.


Per farmi perdonare questo assurdo wall of text, ecco un meme buffo.

Queste riflessioni sono scaturite dalle recenti discussioni sull’aborto e sulle “fake news”, in cui ho visto fazioni opposte scannarsi con fervore universale su concetti che universali potrebbero non essere. Ci sono, indubbiamente, posizioni politiche e persino etiche che sono oggettivamente vere e corrette, e altre che sono oggettivamente false e sbagliate, e che non possono essere tollerate nemmeno nei termini della libertà di pensiero. «L’Olocausto non è mai avvenuto», «non può esistere razzismo contro i bianchi e sessismo contro gli uomini» e «i gay sono deviati mentali che devono essere puniti» non sono opinioni legittime, sono bestialità rivoltanti che non possono e non devono essere tollerate, né a livello umano, né a livello statale, né a livello internazionale. Ci sono però anche posizioni politiche ed etiche che si basano su sensibilità personali o su una diversa scelta delle priorità; così come ci sono posizioni che partono da dati di fatto condivisi e accettati, ma li analizzano e interpretano secondo sfumature diverse o persino opposte, in maniere altrettanto lecite o quasi.


Credo che proprio questa sia la sfida più grande che aspetta le persone intellettualmente oneste: capire, prima di lanciarsi in qualunque discussione, a quale di queste tre categorie appartenga la propria opinione; e immediatamente dopo, se ci siano e quali siano le basi fattualmente dimostrabili di questa opinione. So che io mi scontro spesso con questa sfida, e per questo su alcuni argomenti fatico a trovare un’opinione davvero stabile e definitiva, e preferisco passare il mio tempo a rompere il belino agli opposti estremismi, per cercare disperatamente di riportare la discussione su toni equilibrati e razionali.


[1] Ammesso e non concesso che sia possibile raggiungere un accordo unanime e onnicomprensivo su cosa significhi essere una squadra oggettivamente migliore!
[2] Il che non significa costringerli a un cambiamento a 180°: significa, semplicemente, assicurarsi che qualunque opinione abbiano sia basata su fatti veri.
[3] Entrambi argomenti effettivamente utilizzati, da persone anche molto importanti. Incidentalmente, “oggi fa freddo, alla faccia del riscaldamento globale” è lo zero argomentativo assoluto, ed è un eccellente indicatore che si sta parlando con un coglione ignorante. Qualcuno di questo tipo, per intenderci.
[4] Quali boss mafiosi, banchieri che riciclano consciamente i soldi dei mafiosi e dei trafficanti di droga, serial killer irrimediabilmente psicopatici, stupratori seriali e reticenti, politici a capo di vasti sistemi di corruzione, gerarchi politico-militari che hanno commesso crimini di guerra e contro l’umanità. Sono convinto che l’ergastolo sia un sistema inutilmente crudele e dispendioso se applicato a persone come, ad esempio, Totò Riina, che persino dal carcere continua a comandare un sistema mafioso che fa capo a lui. Inoltre, sono convinto che a seconda del contesto una singola tangente (per una edificazione non a norma, per esempio) o un singolo imprenditore troppo “lasso” sulle norme di sicurezza possano provocare più morte e sofferenza di dieci serial killer abili e motivati messi assieme. Infine, sono convinto che i referenti politici ed economici della mafia debbano essere considerati indirettamente responsabili di tutti i crimini commessi dai mafiosi cui hanno garantito impunità e appoggio, e che siano moralmente più deprecabili di qualunque misero picciotto con una pistola.
[5] Aborto volontario permesso fino alla dodicesima settimana, aborto terapeutico permesso sempre, obiezione di coscienza solo riguardo le operazioni volte all’effettiva interruzione (escludendo quindi l’assistenza prima, dopo e durante) e solo per quanto riguarda le interruzioni non volte a salvaguardare la salute della madre.
[6] Manca solo un sistema per impedire il mobbing contro i ginecologi non obiettori e per garantire la presenza di almeno un non obiettore in ogni ASL o comune.

17 feb 2017

[Recensione] Journey Collector's Edition



La Journey Collector’s Edition raccoglie i tre pluripremiati titoli della thatgamecompany, disponibile su PS3 e PS4. Sono tre titoli molto diversi, ma uniti da un comune intento sperimentale e minimalista.

flOw


flOw nasce come master thesis dell'autore Xinghan "Jenova" Chen sulla teoria psicologica del flusso applicata al videogioco, e dopo un discreto successo ottenuto come flash game viene portato espanso e migliorato su PS3. Il giocatore controlla una di cinque diverse creature sottomarine costituite di figure geometriche, facendole nuotare alla ricerca di cibo per aumentare i propri segmenti e diventare più grandi. Praticamente è la versione artsy e non frustrante di Snake, il giochino dei vecchi Nokia, avete presente?

È un gioco molto difficile da descrivere, perché penso lo si possa definire come qualcosa di molto particolare, e perché il suo concetto di base è tanto semplice quanto, a primo impatto, bizzarro. Eppure, devo dire che funziona molto meglio di quanto mi aspettassi. Navigare fra vari "strati" di vita sottomarina, vedendo la propria creatura diventare più grande e maestosa nutrendosi delle creaturine che vi si muovono, e usare le sue abilità speciali per combattere altre creature mangiandole a propria volta, è sorprendentemente coinvolgente, ed è facile trovarsi immersi nel flusso, appunto, del gioco. Il tutto senza mai risultare frustrante (la punizione per il fallimento è quasi nulla), e senza obbligare il giocatore a un unico stile di gioco (è possibile vincere senza mangiare niente, o senza attaccare altre creature, ad esempio). Il sound design (firmato Austin Wintory) merita una particolare nota di merito: un tappeto costante di tastiere dall'effetto "new age" fornisce la tonalità, lo "scheletro" sonoro, sopra al quale si inseriscono tutti gli altri suoni. Movimenti, ferite, mangiare, il cibo appena ingerito che scorre lungo il corpo ecc. sono accompagnati da note musicali, dando l'impressione che il gioco intero sia uno strumento musicale suonato dal giocatore con le sue azioni. L'aspetto delle creature, poi, è semplice ma d'impatto, e il vederle crescere e diventare più grandi e più belle man mano che si nutrono riesce ad essere una soddisfazione più che sufficiente per continuare a giocare. Indubbiamente non è adatto a tutti, ma mi sento di consigliare di provare questo gioco semplice, minimalista, rilassante, e portatore di un'esperienza quasi mistica, anche a chi dalla sola descrizione non ne sia attratto; io stesso ero molto dubbioso, anzi ero convinto che l'avrei odiato, eppure mi sono dovuto ricredere. 

Posso solo far notare quanto sia una genialata rendere anche i crediti giocabili, con ogni nome rappresentato da un altro punto da mangiare?

Ha però a mio avviso un grosso difetto: per quale gran diavolo di motivo devo controllare le creature con il sixaxis invece che con gli analogici come tutte le persone normali? A parte che è scomodo e che mi sento un cretino, ma dopo un po' fanno male i polsi porc...

Flower


Secondo gioco di thatgamecompany, Flower può essere descritto come una versione più grande e più ambiziosa di flOw. Il concetto di gameplay di base è molto simile: il giocatore controlla il vento, che soffiando fa sbocciare i fiori che tocca risvegliando la natura intorno ad essi e si arricchisce di petali, creando una catena sempre più lunga e colorata. In questo caso, però, l'obiettivo non è semplicemente "mangiare" i fiori, ma completare un viaggio all'interno di livelli splendidamente elaborati e bucolici, ricchi di erba e colline e bellissimi giochi di luce. Ognuno è presentato come una sorta di "sogno" vissuto da alcuni fiori posti su un davanzale in una grande città, e tutti insieme strutturano una sorta di percorso che parte da verdi colline e, attraversando oscure foreste di tralicci dell'alta tensione, arriva alla città.

Se ci sia o meno un messaggio ecologista di fondo è discutibile, ma credo che lo scopo principale del gioco sia semplicemente quello di immergere il giocatore in un'esperienza rilassante e libera, che sembra voler stimolare la catarsi non attraverso l’azione o la sfida ma attraverso il “crescendo” di bello estetico della natura, mettendolo in contrasto con il grigiore della città. Perché a livello di gameplay non c'è davvero niente: nessuna vera sfida a parte quella per i completisti come me (segreti da scovare, sezioni da superare in un certo modo ecc.), nessun game over, nessuna meccanica oltre a muovere il vento sugli oggetti (purtroppo sempre col sixaxis MA PERCHÉ PORCO GIUDA), quindi tutto l'impatto emotivo che Flower cerca di avere sta nella sua atmosfera e nel suo ambiente. E se questi ultimi funzionano discretamente bene (anche grazie alla colonna sonora), ho trovato il gioco nel suo complesso abbastanza insipido. Indubbiamente piacevole, se non altro per il suo carattere sperimentale, ma trovo che il concetto di base sia semplicemente insufficiente a reggere in piedi il gioco da solo. Ecco, credo che il modo più stringato di descriverlo sia questo: esecuzione competente ed efficace di un'idea che però non è che fosse tutto 'sto granché. Interessante e meritevole d'attenzione nel contesto di questa collection, della storia di thatgamecompany, e della storia del videogioco, ma come titolo stand-alone sinceramente non credo che lo consiglierei se non a giocatori abbastanza appassionati e curiosi da voler provare nuovi modi di intendere il linguaggio videoludico.

Journey


Le console Sony sono spesso riuscite a presentare alcuni giochi che, pur prodotti da piccoli studi con budget limitati, pur ben lontani da qualunque canone AAA, pur usciti quasi in sordina, sono riusciti a scuotere i canoni del linguaggio videoludico, presentando qualcosa di minimalista e contemplativo che riusciva a coinvolgere in un'esperienza emotiva profonda e senza precedenti. Sulla PlayStation 2 avevamo Ico e Shadow of the Colossus. Sulla Playstation 3, abbiamo Journey.

Il concept è, ancora una volta, estremamente semplice: il giocatore controlla una figura completamente avvolta in un mantello, che si risveglia in un vasto deserto sabbioso. Dopo pochi passi, emerge all'orizzonte la figura di una grande montagna con la sommità divisa in due, e il viaggiatore si mette in cammino verso questa montagna. Lo scopo del gioco è esattamente quello: il viaggio verso questo obiettivo lontano, attraversando il deserto e le misteriose rovine di un'antica civiltà. Lungo la strada si incontreranno misteriose creature di stoffa e glifi che raffigurano la storia di questa civiltà, ma il focus è solo sull'esperienza del viaggio. Nonostante io lo abbia paragonato a Shadow of the Colossus, l'impatto emotivo di questo gioco è oserei dire unico, o quantomeno diverso da qualunque cosa abbia mai giocato. E questo non solo per via della bellezza dei paesaggi che si incontrano e attraversano, ma grazie alle diverse sensazioni che il gioco va a creare nei vari ambienti, tracciando un percorso misterioso, mistico, contemplativo e musicale, che sa sorprendere, stimolare, illuminare l'animo. L'interazione con l'ambiente è limitata alla ricerca di alcuni simboli luminosi (assorbire i quali creerà e allungherà una sorta di sciarpa magica sulla schiena del viaggiatore, che gli darà il potere di volare sempre più a lungo) e a una sorta di "canto" con il quale il protagonista può attivare dei drappi di stoffa e pietre magiche (allo scopo di creare ponti, aprire passaggi, farsi aiutare ad attraversare delle aree, ricaricare l'energia della sciarpa ecc.). La meta è quasi un pretesto, il viaggio è il vero scopo: senza dialoghi, senza nemici da battere, con solo alcuni ostacoli da superare e piccoli enigmi da risolvere, il giocatore è lasciato solo con un personaggio completamente vuoto in cui immedesimarsi, con la musica, e con alcuni degli ambienti più splendidi che ricordi di aver mai visto in un videogioco (le luci e la fisica della sabbia, in particolare, sono semplicemente spettacolari). 

Screenshot da thatgamecompany.com

Ho detto "solo"? Beh, non proprio, perché Journey ha anche una componente multiplayer, ed è il multiplayer più strano e affascinante che abbia mai visto. Giocando connessi online, in ogni "livello" si può incontrare un altro viaggiatore (ovvero, altri giocatori). L'interazione con essi è limitatissima: non viene visualizzato alcun nome utente, non c'è nessuna chat, si può solo "cantare" e stare vicini, ricaricando così la loro sciarpa. Ma soprattutto, è un'interazione assolutamente opzionale: si possono incrociare e poi superare andando per la propria strada, così come si può fare parte del percorso assieme e poi perdersi senza neanche rendersene conto, così come invece si può restare assieme fino alla fine. Ed è proprio questo aspetto a dare a Journey un ulteriore elemento di interesse: quel giocatore, se l'avessimo incontrato nel server di Left 4 Dead della porta accanto, magari lo avremmo trovato fastidioso, lo avremmo maledetto perché ci ruba le kill o ci impedisce di prendere questo o quel trofeo, o avrebbe detto delle cose terribili su nostra madre. Qui, però, è diverso. Immersi nella solitudine totale, quasi esistenziale, del nostro viaggio verso la montagna, ogni incontro con un altro viaggiatore sembra magico, e siamo quasi attirati a lui. Ognuno di noi è qui per il proprio viaggio, ma possiamo farlo assieme, farci compagnia mentre lo facciamo, anche se è ben poco l'aiuto che possiamo darci. È un po' il principio del camminare in montagna: in città, ogni persona è un ostacolo, un fastidio nei nostri piani, e ne incontriamo talmente tante che nemmeno ci facciamo caso, guardiamo per terra cercando di evitare qualunque contatto; quando camminiamo in montagna, però, immersi nel silenzio della natura incontaminata e nella solitudine di un mondo incomparabilmente più grande e più antico di noi, ogni trekker che incrociamo sul sentiero lo salutiamo; spinti a quel "buongiorno" e magari a quel "quanto manca al rifugio?" dalla sensazione di fratellanza che si crea naturalmente fra due persone che, da sole, marciano autonomamente verso lo stesso obbiettivo, prima ancora che dalla buona etichetta della montagna. Ecco, questo gioco è esattamente così.

Screenshot da thatgamecompany.com

La musica, di nuovo firmata da Austin Wintory, è un elemento primario in questo viaggio: un unico tema, prevalentemente portato dal violoncello e accompagnato da vari arrangiamenti sia orchestrali che elettronici, è la spina dorsale di tutti i brani, che scivolano fluidamente l'uno nell'altro in base alle azioni del giocatore e ovviamente in base agli ambienti. La sensazione è che in qualche modo la musica non sia un semplice accompagnamento agli eventi sullo schermo, ma che i due siano inseparabilmente intrecciati in una sinfonia che, pur fra movimenti sensibilmente differenti, costituisce un tutt'uno tematico declinato in modi diversi. In alcuni momenti, in particolare, alla musica si deve il 70% dell'impatto emotivo del gioco. Vi basti sapere che la mia prima reazione una volta finito il gioco è stato di volare su Bandcamp a comprare la colonna sonora, perché maledizione avevo il bisogno di averla sul computer e risentirla IMMEDIATAMENTE.

Pur senza una vera e propria storia, la successione dei vari luoghi crea una sorta di arco narrativo paragonabile alla tipica struttura a tre atti, o se vogliamo all'archetipico viaggio dell'eroe come delineato da Joseph Campbell: calma, chiamata all'avventura, crescendo, discesa, nadir, risalita, apoteosi, risoluzione. Molti hanno visto in quest'arco una metafora di qualche tipo, e a mio avviso la più solida interpretazione è quella che vuole questo viaggio come un'allegoria del viaggio della vita.
Non sono sicuro al 100% che fosse questo e solo questo il senso inteso dagli autori, ma mi piace pensare che lo sia, perché dà al gioco quella chiave di lettura in più (che a Flower per esempio mancava) che lo rende più universale.

Screenshot da thatgamecompany.com. Vorrei essere capace di prendere degli screenshot dalla PS3, davvero.

Inutile dire che è un gioco straconsigliato, a tutti, soprattutto a chi vede il medium videoludico come qualcosa di più di un arcade in cui infilare monete fino a ottenere un punteggio più alto degli altri per blagarsi con gli altri zuenotti del quartiere. Un'esperienza unica, quasi mistica, che ho cercato al meglio delle mie capacità di spiegare qui ma che, in realtà, è impossibile da descrivere: va sentita, lasciandosi andare alla solitudine del viaggio. Probabilmente non è per tutti, e me ne rendo conto, ma va comunque provato. Dategli una possibilità di sorprendervi.

Vorrei chiudere descrivendo la mia personale esperienza col multiplayer, mettendola sotto spoiler, perché è stato uno dei momenti più magici e soddisfacenti della mia "vita videoludica".