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31 lug 2017

[Recensione/Essay] BioShock: oggettivismo e libertarianismo


BioShock, il gioco che ha portato l'FPS alla System Shock nell'era PS3 e ha ricordato alla generazione che anche gli shooter potevano avere storie complesse e filosofiche. Nonostante possa essere definito non tanto un “sequel spirituale” quanto un vero e proprio calco di System Shock 2 (si farebbe prima a elencare in cosa i due giochi non si somigliano), BioShock può vantare un’atmosfera steampunk originale e una trama tematicamente ricchissima. Parlerò brevemente del gioco in sé, ma vorrei concentrarmi soprattutto su quest'ultimo aspetto.

Ludicamente parlando, è solido ma, a mio avviso, non eccezionale. La caratteristica peculiare di questo FPS è data dai "plasmidi", sostanze ricombinanti che forniscono bonus passivi o abilità attive. Può essere equipaggiato solo un numero limitato di plasmidi, facendo quindi scegliere il giocatore fra molti possibili approcci alle sfide del gioco. 

Lodevolmente, Bioshock riduce la massacrante difficoltà del suo predecessore, ma finisce con l'esagerare nel senso opposto. [...] L'eccellente atmosfera quasi horror perde il suo mordente in un attimo.

In teoria, le possibilità sono davvero molte: una torretta può essere distrutta, hackerata (attraverso un minigame piuttosto tedioso), o elusa tramite esche; un nemico può essere cecchinato, preso a colpi di chiave inglese alle spalle, attirato nell’acqua e fulminato, congelato e fatto a pezzi, trasformato in bersaglio di un Big Daddy o di una torretta ecc. In pratica, però, il fatto che non ci siano limiti a quali potenziamenti si possono equipaggiare, né a quale e quanto equipaggiamento si può portare, né all’efficacia del personaggio con le varie abilità o armi, fa sì che molti plasmidi diventino di fatto inutili o ridondanti (una modifica per lanciare api? Una passiva per far durare gli allarmi qualche secondo di meno? Wow, buon Natale! Posali accanto a quel gigantesco lanciafiamme che fa lo stesso loro lavoro però meglio e in meno tempo).

Lodevolmente, BioShock riduce la massacrante difficoltà del suo predecessore (in cui la mancanza di specifici upgrade entro un certo punto significava di fatto “hai perso, ricomincia da capo”), ma finisce con l'esagerare nel senso opposto: munizioni e medkit sono abbastanza abbondanti da farcisi la doccia, le camere rigeneranti non richiedono attivazione e sono ovunque quindi non c'è nessuna punizione per la morte e nessun incentivo a essere cauti. Così facendo, l'eccellente atmosfera quasi horror perde il suo mordente in un attimo. Data anche la poca varietà di nemici, il tutto diventa molto monotono e molto tedioso molto in fretta. 

Infine, vogliamo parlare del sistema morale? Di quelli alla InFamous, con solo due finali talmente manichei da risultare estranianti? Secondo BioShock, la differenza fra l’essere un filantropo che dedica la vita agli orfanelli e un novello Adolf Hitler che si lancia alla conquista del mondo con un esercito di mutanti è la differenza fra 20/21 e 19/21.

Ma nonostante tutto questo, il gioco rimane uno dei picchi di qualità della sua generazione grazie alla sua atmosfera, allo stile visivo dei suoi ambienti, alla narrativa ambientale e, soprattutto, alla profondità filosofica e politica che viene messa in mostra dall'utopia di Rapture e dalla sua caduta. 

Una profondità forse non così efficacemente trasmessa, ma a mio avviso molto importante, in quanto rende BioShock uno dei pochi videogiochi di alto profilo che include elementi tematici così intimamente politici

Ne farò qui sotto una mia analisi, personale e SPOILEROSISSIMA.

No gods or kings. Except me, of course. I mean, look at this huge statue of me right here. Bow down and obey, parasite.

Il gioco rimane uno dei picchi di qualità della sua generazione grazie alla sua atmosfera, allo stile visivo dei suoi ambienti, alla narrativa ambientale e, soprattutto, alla profondità filosofica e politica che viene messa in mostra dall'utopia di Rapture e dalla sua caduta. 

Rispetto a System Shock 2, il focus non è su IA impazzite o infezioni aliene, ma sulla più semplice (e più interessante) pazzia e ingordigia umana: Rapture nasce come un paradiso libertariano in cui ognuno può trovare il proprio posto col solo frutto del proprio lavoro e della propria libera impresa, lontano sia dal governo americano che dal comunismo sovietico. 

Andrew Ryan, il magnate suo fondatore, definisce "parassiti" tutti coloro che "chiedono di ricevere qualcosa dagli altri": i poveri e i malati, qualunque stato o religione limiti le persone dal godere del frutto dei propri sforzi o che pensi di dirigerlo con costrizioni esterne alla loro propria ragione; addirittura, arriva a definire l'altruismo come la principale delle menzogne umane, equiparando in questo senso i bolscevichi, il New Deal roosveltiano, qualunque religione e qualunque apparato statale a forme di parassitismo che ostacolano l'individuo, che fanno sì che "il grande sia limitato dal piccolo". 

Questo dà al nostro villain un impianto filosofico e politico ben preciso: infatti, è un'incarnazione dell'oggettivismo individualista di Ayn Rand, e di conseguenza di una grossa parte del partito repubblicano statunitense[1]. Nonché, di almeno una incarnazione dell'Ordine dei Sith negli anni della Vecchia Repubblica[2], ma tralasciamo. Le iconografie in Rapture riprendono l'immagine iconica di La rivolta di Atlante, un personaggio si chiama "Atlas", il concetto della Grande Catena sembra essere un riferimento diretto alla "Mano Invisibile" di Adam Smith[3], insomma i parallelismi sono relativamente espliciti.

Rapture, però, cade presto a pezzi, schiacciata in una sorta di guerra civile fra due forze: da un lato, Frank Fontaine, un criminale che porta alla città prodotti e servizi largamente richiesti fino a raggiungere un potere e un'influenza in grado di rivaleggiare quelli di Ryan; dall'altro, Andrew Ryan stesso, che considerando Rapture la sua creazione e l'opera del suo genio arriva a voler proteggere la sua visione di essa a tutti i costi, anche a costo di rompere i propri stessi principi. 

Rapture sarebbe sopravvissuta e prosperata, forse, se Ryan avesse compiuto un ragionamento contrario all'oggettivismo, che mettesse il suo interesse personale in secondo piano rispetto all'interesse sociale: ovvero, un ragionamento altruista.

Sì, perché Ryan, in barba ai principi libertariani, chiude la città a qualunque contatto commerciale con l'esterno. Questo dà spazio a un personaggio senza scrupoli come Fontaine per arricchirsi a dismisura tramite il contrabbando di beni richiesti, permettendogli poi di “espandersi” in settori legali; alcuni “moralmente grigi”, come i plasmidi, ma altri invece apparentemente lodevoli, come orfanotrofi e servizi per i poveri. 

Se si escludono i suoi modi violenti, Fontaine è una perfetta rappresentazione del sogno di Ryan: senza alcun freno morale e con le proprie sole forze, compresa la lucidità di sfruttare biecamente le falle del sistema, si arricchisce offrendo ai compratori un prodotto che desiderano, guadagnandone così la stima. Eppure, Ryan, dopo un primo periodo in cui ne “difende” l’ascesa («Se non ti va quello che sta facendo Fontaine, beh, ti consiglio di trovare un modo di offrire un prodotto migliore»), decide di ostacolarlo con la forza dello Stato quando diventa abbastanza potente da essere una minaccia per lui. 

A parte tutto, è solo a me che sparare così tanti proiettili in una città sul fondo dell'oceano sembra poco saggio?

Nel frattempo, in Rapture quei pochi geni che riuscivano ad emergere guadagnavano un'influenza e un potere quasi feudali, mentre la maggior parte della popolazione viveva nel dolore e nella frustrazione

Per citare un audiolog, "vengono a Rapture convinti di diventare tutti capitani d'industria, ma si dimenticano che qualcuno deve ben pulire i cessi". Un'idea, questa, che costituisce la più ovvia falla di qualunque visione del mondo di stampo radicalmente liberista o anarco-capitalista: si possono convincere le persone che con l'intelletto e l'industria tutti possono diventare grandi e ricchi, ma la realtà è che senza operatori fognari, braccianti agricoli, e muratori, nessuna società può esistere. Anche in un mondo di 7 miliardi di Steve Jobs e Bill Gates, qualcuno di questi dovrà raccogliere i pomodori e pulire le strade.

These sad saps. They come to Rapture thinking they're gonna be captains of industry, but they all forget that somebody's gotta scrub the toilets. What an angle they gave me... I hand these mugs a cot and a bowl of soup, and they give me their lives.

Quindi, il problema che sembra emergerne è triplice:
1) Un'ideale di assoluto libero mercato e puro individualismo, senza regolamenti statali, welfare, o "reti di sicurezza sociali", inevitabilmente destina ampie fette della popolazione a una vita di insoddisfazione, infelicità, e povertà. Il tutto mentre i pochi che "ce l'hanno fatta", in virtù della loro importanza e influenza, sono liberi di agire anche nei modi più orribili, senza essere ostacolati né dalla morale né dallo Stato (in Rapture: il chirurgo estetico, l’artista folle, la ricercatrice tedesca, la vineria che annacqua il vino ecc.).
Questo crea inevitabilmente conflitti di classe, ergo un substrato di malcontento pronto a esplodere; oppure o a venire manipolato da chiunque, come Fontaine, offra loro una via d'uscita.

2) Fontaine agisce, indubbiamente, nell'illegalità e nella violenza, all’inizio, ma successivamente dà alla popolazione quello di cui ha bisogno: non solo beni materiali, ma cibo per gli affamati e i malati mentali, un tetto agli orfani, e ovviamente l'ADAM, una sostanza pericolosa che però prometteva di rendere più forti, più intelligenti, migliori del prossimo, di far vincere la gara verso il sogno americano rapturiano", con solo il piccolo effetto collaterale di far impazzire chi, magari disperato per l'impossibilità di migliorare la propria condizione, ne fa uso smodato. (i paragoni con la cocaina o con altre droghe eccitanti si sprecano) Creandosi, così, un ampio bacino da manipolare per prodursi un esercito.
Insomma: la Grande Catena ha creato sia una classe di disperati sia un Fontaine pronto ad approfittarne. In altre parole: ha piantato il seme della propria distruzione. Ci sarebbero stati molti modi di evitarlo: vietare l'ADAM in quanto pericoloso, un maggiore impegno di polizia e giustizia per fermare Fontaine, ecc. Ma questo avrebbe significato rompere i precetti del capitalismo laissez-faire.

3) Ryan agisce in maniera contraria all'aspetto economico dell'oggettivismo, ma in maniera perfettamente in linea con i suoi aspetti individualisti: nascondendo Rapture al mondo e agendo per contrastare Fontaine e nazionalizzare le sue aziende, agisce semplicemente nel proprio interesse, per difendere la propria posizione e il proprio potere. Del resto, è al comando perché se l'è meritato, ha tutto il diritto di pensare a sé stesso con i mezzi che è riuscito a procurarsi con le proprie forze, no? Sei forse un parassita che vuole impedirgli di godere del frutto del suo lavoro? 

Rapture sarebbe sopravvissuta
e prosperata, forse, se Ryan avesse compiuto un ragionamento contrario all'oggettivismo, che mettesse il suo interesse personale in secondo piano rispetto all'interesse sociale: ovvero, un ragionamento altruista.


Anche le scelte morali sembrano essere incentrate intorno a questa “dualità” fra altruismo e individualismo: uccido le Sorelline, per badare ai miei interessi e guadagnare un grosso vantaggio nella mia corsa contro i miei nemici (come spinge a fare Fontaine, non a caso), o le salvo, perché è giusto farlo anche se mi danneggia nel breve termine? Oppure le ignoro, lasciandole nella loro miseria, per non correre rischi e/o per non dare inizio a violenza non necessaria contro i Big Daddy (e qui si potrebbe tracciare un parallelo con il concetto di NAP o "Non-Aggression Principle" centrale nella filosofia anarco-capitalista)?

Tutto questo mi fa pensare che l'aspetto narrativo di BioShock sia, in gran parte, una critica a questo modello sociale ed etico; o in quanto fondamentalmente fallato per via dell’insostenibilità di un individualismo così estremo (senza salvaguardie etiche e istituzionali contro di esso, cosa impedisce a colossi come Fontaine e Ryan di “sconfinare”, di “truccare le carte” in proprio favore?), oppure in quanto utopistico e irrealizzabile per via della natura corruttibile dell'uomo.


[1] L’idea per la quale un malato non in grado di pagarsi le cure che chiede di, tipo, non morire sarebbe un “parassita che avrebbe dovuto lavorare di più e pensarci prima” è qualcosa che ho davvero sentito espresso da politici come Ted Cruz e Paul Ryan. A una persona razionale fa un po’ ridere e un po’ orrore, ma c’è gente che lo sostiene e viene pure votata. Da persone presumibilmente alfabetizzate, peraltro!
[2] Il che è divertente, perché la prima volta che ho letto i principi dell’anarco-capitalismo e dell’oggettivismo, me li sono immaginati esattamente così o così.
[3] Concetto, peraltro, mistico e irrazionale, quindi teoricamente dovrebbe essere rifiutato da oggettivisti e da personaggi come Ryan.

23 lug 2017

[Rant] Su Chester Bennington e il suicidio dell'artista

Quindi, Chester Bennington dei Linkin Park è morto. Ve ne sarete accorti, dall'inesorabile torrente di post sui social e sui giornali online a riguardo. E come potrebbe essere altrimenti? Per coloro che sono nati fra la fine degli anni '80 e l'inizio degli anni '90, i Linkin Park sono stati una delle voci dell'adolescenza. Tutti ci siamo passati, in un modo o nell'altro, anche chi poi li ha odiati, anche chi poi è passato ad altri generi. Persino noi Straight to Pain, un gruppo death metal maledizione, abbiamo sentito il bisogno di farci un post. Perché coi loro testi e la loro musica erano una perfetta incarnazione della ribellione adolescenziale, un perfetto sfogo delle sofferenze e delle frustrazioni per le quali obbligatoriamente, proprio per contratto, passa qualunque adolescente. Ironico come oggi tutti possano vedere come i testi e il cantato quasi scream di Chester fossero molto più di un elaborato "fuck you, dad", ma una sincera espressione di sofferenze emotive profonde. 

Ma il punto è che la sua morte, per suicidio peraltro, non è solo l'ennesima morte di un artista, pianta solo dai fan: è uno shock generazionale. Il primo, per molti. È il Jim Morrison o il Kurt Cobain dei millenial: la voce che ha rappresentato così tanto per così tanti, un punto di riferimento in positivo o in negativo per un'intera generazione, non c'è più. E si è tolta la vita. Perché quando cantava "these wounds they will not heal" e "I'm my own worst enemy, I'm giving up, [...] put me out of my fucking misery" diceva maledettamente sul serio.


Lo ammetto senza vergogna: ho pianto. E mi sono sorpreso, perché il mio rapporto coi Linkin Park è stato esattamente alla rovescia: da adolescente li snobbavo. La mia ribellione si esprimeva nel cercare di essere più maturo, più adulto; nello schifare tutto ciò che fosse rap, anzi, tutto ciò che non fosse rock puro o musica ricercata. Io ero quello che ascoltava i Blind Guardian e gli Iron Maiden perché i testi parlano di libri e di storia, mica le vostre cagatine da bimbetti che sanno solo urlare; quello che ascoltava gli Aerosmith e i Kiss perché la musica moderna fa schifo, una volta sì che c'era musica vera; quello che ascoltava Guccini perché la borghesia il proletariato lotta di classe cazzo (cit. Gaber).

È stato solo tornando ai Linkin Park da adulto, da musicista, dopo un'educazione universitaria, che li ho davvero apprezzati; che ho amato la loro ecletticità, la loro sperimentazione, il loro sincretismo, i loro testi così evidentemente sentiti e sinceri. Chester mi ha ispirato "intellettualmente", spingendomi a studiare di più il rasp melodico e a esplorare in modo diverso il mio registro alto (e facendomi molta invidia, maledetti tenori che hanno sempre le canzoni più divertenti da cantare, nessuno pensa mai a noi poveri baritoni). Ci credete che secondo me Minutes to Midnight e A Thousand Suns sono due spanne sopra Hybrid Theory? Giuro! Eppure, ho pianto. 

Perché? Certo, è vero che ho del coinvolgimento emotivo "di secondo grado": la mia ragazza lo adora, Chester la ha aiutata a superare un periodo difficile della sua vita (già per questo gli devo un debito di gratitudine inqualificabile), e la reazione di lei alla notizia è stata quella naturale e immaginabile. Ma non è stato solo per il ruolo che i LP hanno assunto nella nostra coppia. Indubbiamente, se tutto questo fosse successo due anni fa non starei scrivendo questo articolo, ma non è l'unico motivo.

Quando un artista si suicida, c'è sempre, nella mia mente almeno, un elemento di shock in più. La rottura delle illusioni che ci si era costruiti su di lui; la coscienza che sotto la "persona pubblica" che si è conosciuta finora ci fosse una sofferenza esistenziale così profonda; e, ovviamente, quella che io chiamo tragedia del perché: quella terribile sensazione di non sapere il motivo di un gesto tanto estremo, quella inutile ma inevitabile tendenza ad arrovellarsi il cervello per cercare cause, spiegazioni, colpe, incongruenze, ormai inutili ipotesi su come si sarebbe potuto evitare, perché eccome se si sarebbe potuto evitare, cazzo. La vita di Chester Bennington è stata tutt'altro che una passeggiata: violentato da giovanissimo, bullizzato, finito in mezzo al divorzio dei genitori, buttatosi in alcol e droghe (per ribellione? Per attenzione? Per sfuggire al dolore? E chi lo sa?), aveva trovato uno sfogo nella musica e, successivamente, una riabilitazione. Ma evidentemente, gli equilibri che si era costruito non sono bastati, o sono crollati, se neanche un matrimonio almeno pubblicamente felice, sei figli che adorava, la fama, i soldi, gli amici, l'adorazione del pubblico e il lavoro che amava sono bastati a tirarlo fuori dagli abissi della sua mente. 

E adesso così tanti dei suoi testi assumono un altro significato, nevvero?, a rileggerli col privilegio del senno di poi.  Sembrano tutti così veri, così profetici, così sentiti. Ci si chiede, inevitabilmente, se le recenti Heavy, One More Light, Nobody Can Save Me non fossero una richiesta d'aiuto, o la sua versione della suicide note; se quando si è calato fra le prime file di quel pubblico di cui, molti metri indietro, anche io e la mia ragazza eravamo parte, il suo non fosse un addio calcolato prima di un gesto già pianificato, o al contrario la ricerca di un ultimo appiglio. Domande tanto inutili e dietrologiche quanto emotivamente inevitabili. Domande che aggiungono dolore al dolore, alimentano la tragedia del perché, e arrivano a un'ultima, devastante ironia: colui che, esprimendo sé stesso, ha ispirato così tanti ragazzi e ragazze, in molti casi salvandoli dai loro demoni, dai loro dolori, dalle loro frustrazioni, dalle loro solitudini reali o percepite che fossero, non è riuscito a salvarsi dai propri. Come un luminare della cardiologia che muore d'infarto.


Bennington non è stato il primo né (temo) sarà l'ultimo della lunga serie di artisti morti suicidi relativamente giovani. Da Vincent van Gogh a Mishima Yukio, da Virginia Woolf a Ingo Schwichtenberg, da hide degli X-Japan a Chris Cornell. Viene da chiedersi se un certo grado di dolore e di difficoltà ad affrontare certe sfide della vita non siano il prezzo da pagare per fare della grande arte, ovvero se la stessa sensibilità che crea l'artista non lo esponga maggiormente all'usura delle sofferenze piccole e grandi, ordinarie e straordinarie, della vita; o se, al contrario, la capacità di creare arte emozionante non sia la compensazione che viene data a chi soffre di quelle terribili condizioni di depressione, spleen, o come vogliamo chiamarle. Ogni volta me lo chiedo. 

Ma in questo caso, mi rendo conto che rischio di trivializzare la depressione, la quale, checché ne dicano i vari novelli Freud del webbe, è una cosa molto seria, che non riguarda solo celebrità straricche e cantanti influenti, ma milioni di persone, e che, secondo uno studio dell'OMS, potrebbe diventare la seconda principale causa di morte per malattia nei paesi occidentali entro il 2020. È una battaglia costante con un demone che ha ormai conquistato il dominio nella tua testa, che non puoi scacciare ma solo eludere; che può tornare senza preavviso, intrappolarti nel suo territorio, e lì sconfiggere tutte le forze della tua razionalità, dell'amore, delle soddisfazioni; e con una sola vittoria, far spegnere un'altra luce.

Ma, come ha brillantemente scritto mio cognato, che è ben lontano dall'essere un fan dei Linkin Park, «gli artisti hanno questo di bello, di grande: che la loro arte sopravvive. E quello che ci resta è la parte migliore di loro, quello che ci hanno lasciato è quanto di meglio avevano da offrire.» Una consolazione non da poco per tutte quelle persone che avevano fatto un grosso investimento emotivo su di lui, e che ora si ritrovano un grosso buco nei bilanci dei loro sogni, desideri, ricordi e sostegni; una consolazione che, peraltro, rientra perfettamente in parole che lo stesso Bennington scrisse nel 2007:

«When my time comes, forget the wrongs that I've done
Help me leave behind some reasons to be missed
And don't resent me, and when you're feeling empty
Keep me in your memories, leave out all the rest
Leave out all the rest»