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20 apr 2019

[Recensione] Flavors of Youth

詩季織々 "Shikioriori", o 肆式青春 "Se shi qing chun", 2018

Il mostro tentacolare di Netflix ha assalito anche il mondo degli anime, seducendo fra le sue spire la casa di produzione giapponese CoMix Wave (responsabile per Your Name e Il Giardino delle Parole) e la cinese Haoliners Animation League, diventando l'unico distributore occidentale del loro figlio, Flavors of Youth, una raccolta di tre brevi storie di città su alcuni giovani cinesi presi fra l'amore e la nostalgia, il passato e il futuro.

Un ragazzo per cui il sapore di una ricetta a base di spaghetti di riso costituisce il più forte legame verso un passato più felice, più sereno, dal quale non riesce a staccarsi; una modella che, nonostante il supporto della sorella che studia per diventare stilista, si vede sorpassata da ragazze più giovani e cerca di combattere per avere ancora un futuro in quell'industria; un ragazzo per cui un turbolento primo amore scandito da registrazioni su una musicassetta diventa motore di tutte le sue decisioni, di tutti i suoi errori, di tutti i sui dolori. 

La prima storia vi farà venire molta fame.
In tutte e tre, la fa da padrone la componente del confronto con un passato che si vuole recuperare, ma che al tempo stesso si allontana sempre più inesorabilmente, a scapito di un futuro verso cui non si riesce a guardare con gli occhi giusti. Nella prima e nella terza storia questo prende anche la forma di un confronto fra la campagna e la città, o meglio, fra un mondo tradizionale, semplice e sereno, e uno industriale, complicato e infelice. L'atmosfera intreccia sapientemente malinconia e speranza, gioia e tristezza, con quel gusto tipicamente giapponese per le piccole grandi magie del quotidiano, giungendo sempre a una conclusione in qualche modo positiva, in cui i protagonisti riescono a guardare di nuovo verso il futuro e a trovarvi qualche modo di perpetuare, o meglio, di rinnovare le gioie verso cui si prova nostalgia... a patto, però, di lasciar andare tanto i ricordi quanto i rimpianti.

Santo cielo, le musicassette. Sembrano passati millenni.
Ora, se mi conoscete, immagino possiate immaginare il mio responso. Nostalgia verso un passato che non ritorna più e i cui agganci sfumano via, uno dopo l'altro, nell'inevitabilità del tempo? Temi simili ad Aria, come il rinnovare le gioie del passato guardando verso il futuro, il non lasciare che la malinconia dei bei tempi andati offuschi la possibilità di godere del presente? C'è anche un sottile, ma sensibile commento su quanto sia oggettivamente una merda vivere in queste gigantesche prigioni parassitiche di vetro e metallo che ci ostiniamo a chiamare "metropoli" invece di quello che sono, ovvero orripilanti mostri a metà fra il lovecraftiano e l'orwelliano, che fagocitano il passato, le radici, il gusto, la felicità, il tempo, la volontà, la vita stessa di milioni di persone, per sacrificarle come ingranaggi di una macchina-feticcio ormai sfuggita totalmente al controllo umano, divenuta totalmente fine a sé stessa, che da prodotto dell'uomo per l'uomo è diventata motore e fine ultimo di ogni più piccolo aspetto della sua esistenza, della sua formazione, del suo ingegno, della sua sofferenza, come una orrenda bestia prodotta in laboratorio e poi ingrassata fino ad assurgere idolo onnipotente del mondo. Tutte cose che io penso e vivo sentitamente nel mio essere quotidiano.

I valori di produzione sono molto alti, ma il character design è un po' scialbo.

Quindi sì, ovviamente Flavors of Youth mi è piaciuto. Al tempo stesso, però, non posso negare di averlo trovato un pochino manieristico: un prodotto ("prodotto" è la parola chiave) che tocca sapientemente tutte le note giuste, che suona tutte le armonie necessarie a ottenere un certo effetto, e pure con alcuni virtuosismi niente male (la scena dell'acqua sul finestrino del taxi!), ma più "per tecnica" che "per cuore". Ottenendo, così, un effetto certo piacevole, ma dieci volte inferiore rispetto a quello che 5 cm al secondo o Aria, quando toccano temi simili, riescono a creare in un solo episodio o addirittura in una sola scena. Ha pretese forse un po' troppo alte rispetto alla sua reale portata. Insomma: è carino, più che meritevole di essere guardato, ma non è nulla di indimenticabile.

13 apr 2019

[Recensione\Rant] Loom, e le mie gioie da retrogamer

Ho passato due post a mugugnare sulla difficoltà dei giochi retro e su quanto io reputi arcaico un certo tipo di game design basato sul trial & error, certamente guadagnandomi lo scherno dei vecchi campioni delle sale giochi e dei pro gamer di Dark Souls, DOTA e CS:GO. Ed è giusto, ci sta. In fondo hanno ragione. Ho accettato il fatto che moltissime persone vedono il videogioco in maniera diametralmente opposta alla mia, e che alcune considerano il proprio agonismo videoludico come un'estensione della propria mascolinità.

Ma finito il coro di "Git gud" scanditi ritmicamente con ampi gesti in direzione del pacco, permettetemi di sedermi su questa comoda poltrona, di indossare il cilindro, di mettere su un vinile del Lago dei Cigni di Čajkovskij (Op. 20) e di raccontarvi, mentre sorseggio un buon Chianti, cosa intendo io con retrogaming, con "bei giochi di una volta", con nostalgia per un'epoca passata. 


Nel feudo di Skywalker Ranch, stava nascendo una corrente di game design che cercava la profondità e la memorabilità dell'esperienza videoludica non nella difficoltà e nella ripetizione, ma nei dialoghi, nell'umorismo, nei personaggi, nell'immersione, in una colonna sonora sofisticata; che credeva che un gioco dovesse essere completato, perché una storia trova davvero il suo senso solo nella propria conclusione, che quello di tutorializzare le proprie meccaniche non fosse un concetto per fighette, e che la difficoltà non dovesse passare necessariamente per la punizione.

Enter Brian Moriarty. Siamo nel 1990, anno di Super Mario World e del terzo album dei Blind Guardian. La LucasArts (allora "LucasFilm Games") aveva dato la possibilità a questo giovane game designer (già autore per la Infocom di alcune avventure testuali) di dare vita alla propria visione.

Un mondo fantasy popolato da gilde che hanno portato il proprio lavoro al livello di arte mistica. Una, in particolare, quella dei Tessitori, era giunta ad essere in grado di vedere e intessere nel ricamo della realtà stessa, intonando incantesimi musicali di quattro note. Ma la gilda, isolata da generazioni, sta iniziando a morire, mentre il Telaio e il Grande Arazzo profetizzano il prossimo arrivo di una Terza Ombra che getterà il mondo nel caos.
Una donna, Lady Cygna, usa i poteri del Grande Telaio per dar vita a un figlio, Bobbin Threadbare, e viene per questo esiliata al di là della Trama del mondo dagli anziani, troppo interessati a mantenere pedissequamente il corso degli eventi previsto dal Telaio per rendersi conto delle minacce incombenti.
Il giorno del suo diciasettesimo compleanno, Bobbin viene convocato alla presenza del consiglio. Lì, nascosto, assiste sbigottito alla punizione della sua vecchia madrina Hetchel, che gli anziani trasformano in un uovo per aver addestrato Bobbin nonostante i loro espressi divieti. Improvvisamente, un cigno sfonda la finestra della sala, e con un canto di trascendenza trasforma l'intera gilda in uno stormo dei bianchi volatili. Rimasto solo con Hetchel, Bobbin intraprende un viaggio fuori dall'isola dei tessitori, all'inseguimento dei cigni e alla scoperta del mondo, che lo porterà a entrare in eventi e macchinazioni su cui si regge il destino del creato.

Quasi tutti gli screenshot su questa pagina sono presi da Lucasdelirium, che ha scritto un eccellente articolo su Loom.
Con occhi moderni può non sembrare, ma Loom, all'epoca, fu rivoluzionario. Grazie all'uso del dithering e al duro lavoro di Mark Ferrari, che si ispirò allo stile de La bella addormentata nel bosco, mai i 16 colori EGA erano sembrati così profondi e vibranti, con animazioni così ricche e complesse (Steve Purcell fece dei miracoli, per l'epoca). Mai si era sentita una colonna sonora così elaborata (non a caso, presa di peso da Čajkovskij e arrangiata con immensa fatica per il protocollo MIDI e per schede audio che oggi, nell'epoca dell'audio lossless, sembrano quasi preistoriche).  

Loom catapultava i giocatori in un mondo veramente nuovo, e lo faceva respirare tramite ambientazioni mozzafiato e dialoghi ricchi di profondità. Dal modo in cui i personaggi delle varie gilde parlano o costruiscono i loro cimiteri, si intuiscono segni della loro visione del mondo, della loro cultura: si costruisce, cioè, un accenno di lore. Qualcosa di più di un accenno, in realtà, se consideriamo che originariamente la confezione di Loom comprendeva una musicassetta con un audio drama di mezz'ora che raccontava le basi del mondo e l'origine del protagonista. Di nuovo: nell'epoca in cui World of Warcraft o Halo o Assassin's Creed sono marchi presenti su libri, audiolibri, fumetti e film sembra un'inezia, ma allora? Allora era quanto di più ambizioso un videogioco originale avesse mai fatto in termini di narrazione.

I dialoghi sono arricchiti da frequenti primi piani, sorprendentemente dettagliati per l'epoca.

La trama (mai questo termine fu più appropriato) è semplice, di quella semplicità che sa di fiaba universale, eppure riesce a non essere mai prevedibile, soprattutto nel suo finale dolceamaro e deliziosamente mistico. Per tutto il tempo, nei panni di Bobbin Threadbare, camminiamo in cose molto più grandi di noi, vediamo le conseguenze nefaste che può avere un uso disattento del nostro potere, mentre cerchiamo di fare quel poco bene che ancora è possibile in un mondo che sembra muoversi ineluttabilmente verso un destino oscuro; destino che intuiamo (tutte le gilde sospettano gli scopi di dominio della gilda dei chierici, ma ehi, perché rifiutar loro una partita di diecimila spade, se pagano bene? Ricorda qualcosa?), ma di cui non sospettiamo la portata finché non è troppo tardi. 

Certo, i testi non sapevano ancora quanto potevano permettersi di prendersi sul serio: il continuo passaggio fra toni fantasy solenni e grandiosi (con scene di morte e distruzione, riferimenti cosmogonici e cristologici, animazioni parecchio spinte per l'epoca dei floppy disk) e toni leggeri e buffi "alla LucasArts" (con battute e situazioni anche molto divertenti) danneggia un po' l'impatto di entrambi. Similmente, nessuno dei personaggi può davvero essere detto tridimensionale e memorabile: ci ho giocato decine di volte, l'ultima nemmeno un mese fa, e comunque non mi ricordo nemmeno i nomi di quasi nessuno dei personaggi secondari. 

The Great Loom, il telaio dell'universo. In basso, la distaff su cui si eseguono le note.
L'interfaccia (assolutamente minimalista) prevede che il giocatore interagisca con gli enigmi esclusivamente tramite il bastone di Bobbin e i suoi incantesimi musicali. Quasi come nell'Ainulindalë, è la musica la forza creatrice del mondo: è necessario cercare nell'ambiente quali note determinino un certo effetto, e appuntarsele per il resto del gioco. Questi incantesimi non rappresentano tanto dei verbi, come tipico dello SCUMM System, ma dei concetti, dei motivi applicabili ad una vasta gamma di significati, che possono anche essere "cantati" al contrario per descrivere il concetto opposto. Ad esempio: se "aprire" è mi-do-mi-re, "chiudere" è re-mi-do-mi.

Peraltro, fatta eccezione per alcuni incantesimi cruciali, queste melodie cambiano casualmente ad ogni partita, quindi non è nemmeno possibile fare affidamento ad una soluzione o a una partita precedente! Per i musicisti, suggerisco di giocare direttamente a modalità Expert, in cui le note non vengono segnate graficamente sul bastone e devono quindi essere riconosciute a orecchio! Tranquilli, si sta solo sulla scala di do maggiore. Secondo me è un ottimo esercizio per allenare l'orecchio a riconoscere gli intervalli. 

Loom forse esagera nel senso opposto rispetto al design che criticavo la volta scorsa: è davvero troppo lineare e troppo facile, con pochissimi enigmi di soluzione veramente immediata, al punto che nemmeno sfrutta appieno l'immensa gamma di possibilità presentate dalla propria premessa e dal proprio sistema. Ma, come dico sempre: un gioco troppo facile può essere completato e può avere la possibilità di essere apprezzato nei suoi pregi nonostante quel difetto, un gioco troppo difficile semplicemente viene abbandonato.

A dirla tutta, per quanto io lo ami, credo che lo metterei a malapena in un'ipotetica Top 5 fra i soli classici punta-e-clicca Lucas Arts.

Forse anche per questa eccessiva semplicità non ha avuto il successo sperato, sia in termini di critica che di vendite, in un'era ancora dominata da adventure game notoriamente spietati. I due seguiti che Moriarty aveva immaginato non furono mai prodotti, lasciandoci con una storia incompleta, sfilacciata; un po' come il Grande Arazzo nella sala dei tessitori anziani. Eppure, anche grazie a questo, Loom è qualcosa che né Metroid, né Super Mario World, né Fortnite o Dark Souls possono (più) dire di essere: unico. Veramente, meravigliosamente unico

Nei cimiteri, il tessuto che divide il mondo dall'aldilà è più sottile.

Fu rilasciato in tre versioni diverse: quella classica a 16 colori, considerata da Moriarty l'unica degna; quella "talkie" su CD-ROM, a 256 colori e interamente doppiata, ma con molte scene accorciate drasticamente per questioni di spazio, e per questo considerata da Moriarty e da molti fan (me compreso) come un orrore abominevole; e la versione FM-Towns, a 256 colori ma coi contenuti integrali, considerata da molti fan come la migliore ma purtroppo quasi introvabile. Ahimé, l'unica versione acquistabile su Steam e persino su GOG è l'orrore abominevole, ma niente vi impedisce di comprarla a dovere e poi di esplorare le infinite vie dell'internet. Non fu mai tradotto in italiano, ma anni addietro il valoroso team di IAGTG ne ha messo appunto una traduzione amatoriale, scaricabile come patch a questo link.








Come postilla, concedetemi un momento per prendermi una piccola soddisfazione. Oggi, sempre più videogiochi fanno dell'immersione e dell'empatia coi personaggi la propria bandiera; sono nati addirittura estremi come Gone Home o Journey, che sacrificano interamente la sfida nel nome della ludonarrativa; persino Call of Duty o God of War o Gears of War sentono la necessità di sviluppare un setting e una trama originali, anzi, persino titoli dallo spirito "retro" come Dark Souls fanno in realtà di ambientazione e lore il proprio vero punto di forza; nessuno si sognerebbe più di fare un gioco con l'intenzione che non possa essere battuto se non da pochissimi; lo spirito della ripetizione agonistica e della difficoltà come valore assoluto rimane, e ha un ruolo di primo piano nel mercato, ma è relegato per la maggior parte al multiplayer, o allo smartphone, o al completismo di chi vuole una sfida ulteriore alla semplice. 

Quindi scusate, puristi degli arcade e gitguddari vari… ma la Storia, alla fine, ha dato ragione a Moriarty. E a me.



6 apr 2019

[Commenti/Rant] Super Mario World, e le mie frustrazioni da retrogamer

Nello scorso articolo ho parlato di come, pur essendo un "borderline retrogamer", io in realtà fatichi moltissimo a farmi piacere quello che era forse lo stile di gioco prevalente sulle prime console Nintendo e sugli arcade. 

La mia esperienza con lo SNES Mini, invece, è stata molto migliore: entrando più propriamente nei "miei tempi" (primi anni '90) mi sono sentito molto più a casa. Quella è la generazione che ha visto Chrono Trigger, in fondo, capolavoro JRPG che ho sviscerato e amato alla follia sul Nintendo DS! (assente sulla mini-console, ma insomma, esiste hakchi2)

Dopo l'obbligatoria occhiata generale ai vari titoli proposti da questo overpriced emulator in a fancy plastic box, scoprendo non senza un pochino di vergogna che Kirby mi piace da morire, non ho potuto far a meno di notare una fondamentale differenza di mentalità fra quello che molti di questi giochi sembrano aspettarsi da me e quello che io sono abituato ad aspettarmi da loro. Mi sono concentrato su Super Mario World, in particolare, leggendaria pietra miliare del 1990 (per dire, coevo al mio primo contatto con l'arte videoludica: The Secret of Monkey Island).

Per quanto io non sia un gran fan né dei platformer in generale né tantomeno della mascotte per eccellenza di casa Nintendo, capisco perché sia considerato un classico esemplare di buon design. Le mappe rigiocabili liberamente e disposte in un mondo da sbloccare e esplorare, che finalmente dà la sensazione di star lavorando verso qualcosa di più di un semplice high score; il gameplay semplicissimo da capire ma complesso da padroneggiare, con miriadi di segreti mirati a sbloccare nuove vie e nuove scorciatoie (chissà, forse è stata una cosa ispirata dai Metroidvania?) e numerosi, divertentissimi potenziamenti (fra i quali, ovviamente, spicca Yoshi)... non c'è che dire, è un titolo straordinario, impegnativo, vario, invecchiato come un buon vino.


Ci sono alcune piccole lamentele tecniche che avrei. Ad esempio il fatto che ricaricare un punto di salvataggio faccia perdere le vite e i punti bonus accumulati. Molte sono probabilmente dovute alle limitazioni tecnologiche dell'epoca. Altre però sono più organiche, che non so se imputare al gioco in sé o al sottoscritto che non ha il mindset giusto. 

Giocando a Super Mario World, ho fatto larghissimo uso dei savestate e della funzione di rewind permessa dallo SNES Mini... e sinceramente, credo che senza di esse avrei abbandonato dopo un'ora. Ancora al sesto mondo mi sembrava di non aver davvero capito come funzionava il gioco, mi sembrava tutto così... a caso: quando una cosa andava male non capivo il perché, quando una cosa andava bene non capivo il perché, quando una cosa a volte funzionava in un modo a volte in un altro non capivo il perché. Il tutto con le vite e il timer del livello, un sistema certo standard all'epoca ma oggi giustamente superato. I livelli nelle case dei fantasmi sono ancora un mistero, per me. La maggior parte delle volte uscivo dalla sessione di gioco più nervoso di come ci ero entrato. Ho usato una guida per trovare segreti e uscite nascoste, e molte volte ho dovuto ammettere, mestamente, che senza quell'aiuto non sarei mai riuscito a scoprirne neanché metà, se non, appunto, rigiocando all'infinito gli stessi passaggi tentando cose a caso.

Da più parti leggo che la filosofia di design dell'epoca era il "git gud". Forse avrei potuto (e dovuto) sforzarmi di più a studiare a dovere i movimenti, i frame, gli indizi nell''ambiente ecc. (cosa che non ho fatto anche perché l'ho giocato in un periodo particolarmente impegnato e stressante), ma... ecco, parliamone un momento.

Oh sta' zitto Giantdad, non mi farò dire "git gud" da una build da griefer talmente broken da essere diventata un meme.
"Git gud" è imparare le meccaniche di un gioco, padroneggiarne l'esecuzione, migliorare i propri tempi di reazione, sfruttare ogni briciolo di conoscenza del suo funzionamento e svolgimento per essere sempre massimamente efficienti. Bayonetta è "git gud". Tekken è "git gud". Fare una run col rank Big Boss in Metal Gear Solid 3 è "git gud". Per quanto mi costi ammetterlo, Dark Souls è "git gud" (non al 100%, ne avrei da dire anche lì, ma tralasciamo). Diamine, Love Live! è "git gud"!

Street Fighter II, in cui l'IA legge l'input del giocatore invece delle mosse del personaggio, non è "git gud", è fare una difficoltà letteralmente disumana perché i cabinati guadagnano con le monetine; è l'antesignano di quelle pratiche odierne giustamente tanto criticate, come le micro-transazioni pay-to-win. Super Mario World che mette l'uscita di un mondo in un tubo uguale a tutti gli altri che sono invece solo di scena, o che mette una fila di trappole con un timer tale che l'unico modo di scamparvi al primo colpo è la preveggenza, o che mette uscite segrete dentro uscite segrete dentro altre uscite segrete... tutto questo non mi sembra "git gud", è provare cose a caso finché qualcosa non funziona, è memorizzare i livelli ripetendoli decine e decine di volte come unica possibile via verso la vittoria.

Per come intendo io il concetto, un giocatore che abbia gittato gud a sufficienza (in termini di coordinazione, strategia, conoscenza delle dinamiche del gioco ecc.) dovrebbe, teoricamente, essere in grado di applicare quelle capacità per gestire ogni situazione: il senso di fairness viene dal rendersi conto che si avevano già le informazioni e i mezzi per evitare di fallire e si è fallito comunque. Insomma, se il giocatore sa leggere i segnali e sa come reagirvi, dovrebbe essergli teoricamente possibile, ad esempio, abbattere un boss al primissimo tentativo (che poi avvenga effettivamente o meno ovviamente è un altro discorso). Se invece, ad esempio, un tile perfettamente identico a tutti gli altri è in realtà una trappola mortale, non c'è gittare gud che tenga: devi morirci una volta e ritentare. Come quando a scuola invece di impegnarti per capire Hegel ti limitavi a imparare a pappagallo le frasi sul libro di testo, solo che in questo caso è l'insegnante stesso a dirti di fare così.

Sarò limitato io, ma l'idea di memorizzare e ripetere dei pattern la vedo come l'estrema antitesi del concetto di divertimento.


Quindi, ahimé, ho avuto un'esperienza profondamente diversa da quella, per così dire, "originale", o da quella da puristi. Mi rendo conto delle ragioni storiche per cui i videogiochi di quell'epoca fossero così: bisogno di guadagnare sui cabinati, bisogno di aumentare artificialmente il playtime di giochi altrimenti brevissimi, pubblico più ristretto e più omogeneo (=ragazzini maschi a malapena adolescenti con pochissimi soldi ma tantissimo tempo), medium più acerbo, elaboratori dalle capacità molto più limitate ecc. ecc. Sarebbe stupido farne loro una colpa. 

Ma per quanto Super Mario World sia certamente fra i migliori della sua generazione, e fra quelli che meglio hanno resistito al test del tempo, credo che una certa filosofia di design (di cui SMW è ben lontano dall'essere l'unico o il più significativo portatore) sia una reliquia non più accettabile, non più adatta ai gusti e alle esigenze oggettive di oggi. La nostalgia che tanti sembrano provare verso quel genere di approccio mi pare malriposta, nonostante le numerose e altrettanto insopportabili storture del gaming moderno.

Ci sono molti aspetti e molte pratiche da re-imparare dai videogiochi del passato, dai grandi pionieri del medium artistico più completo che la storia umana abbia mai conosciuto; ma ce ne sono anche molti che dovrebbero essere ricordati solo come vie da non ripetere. Il fatto che alcuni sembrino rifarsi a quelli che io considero come facenti parte dei secondi piuttosto che dei primi (looking at you, Dark Souls/Mighty No. 9) mi lascia, a essere sincero, abbastanza perplesso.

Ma non è detto che abbia ragione io. Lasciate che, la prossima volta, vi porti un esempio "positivo" di quello che intendo io quando parlo di "bei vecchi tempi".