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27 nov 2017

[Risposta] Bamboccioni, hanno un lavoro e vivono al Nord - È davvero grave?

Qualche settimana fa, mi è capitato di leggere alcuni articoli riguardo l'inchiesta della Banca d'Italia sui giovani adulti che continuano a vivere a casa dei genitori, anche quelli che un lavoro ce l'hanno, il cui numero sembra decisamente sopra la media europea. In particolare, mi riferisco a questi:

TGCOM24: "Bamboccioni, ecco il nuovo identikit: hanno un lavoro e vivono al Nord"



Ora, prescindiamo da tutte le (scontate quanto inevitabili) considerazioni di carattere socio-economico, quali la disoccupazione, la precarietà, l'alto costo delle abitazioni, la mancanza della sicurezza lavorativa di cui godeva la generazione del boom, la perdita dei diritti tanto duramente strappati dai sessantottini eccetera: tutte cose che oggettivamente rendono difficile rendersi indipendenti, ma che sono state abbondantemente discusse. Traliasciamo anche l'ipocrisia ripugnante di una politica al costante servizio dei poteri capitalistici, che con una mano taccia questi giovani di essere bamboccioni/choosy/sfaticati, e con l'altra agisce per solidificare le posizioni di chi un lavoro ce l'ha già, per allontanare ancora di più la pensione degli anziani (e con essa il turnover generazionale), e per rendere sempre più conveniente ai padroni il lavoro precario, quando non gratuito (alternanza scuola-lavoro).
Vorrei invece vedere la cosa da un altro punto di vista, e chiedere: è davvero così sbagliato? Alla fin fine, che problema c'è? 

Mi spiego meglio. L'idea che i pargoli debbano necessariamente uscire di casa a 20-25 anni e andare a vivere per conto proprio è relativamente recente nella cultura umana, e proviene più dalla cultura cittadina e/o germanico-anglosassone (in particolare quella americana, più individualista) che da quella rurale e/o mediterranea (più collettivista e pragmatica). 

Non è passato che poco meno di un secolo da quando era la norma che intere famiglie allargate abitassero insieme: si pensi agli appartamenti poveri della rivoluzione industriale, o alle dozzine di romanzi che tutti noi abbiamo letto a scuola in cui il "nucleo famigliare" costituiva di padre, madre, figli, nonni, suoceri, nuore, generi, zii, nipoti e cugini (I Malavoglia, anyone?). In zone come la valle dove abito io (immaginatevi gli Appennini descritti da Guccini, ma coi cinghiali al posto dei mulini e i lisotti al pesto invece dei tortellini) non è poi così raro trovare situazioni simili ancora oggi: io stesso conosco personalmente almeno tre persone che vivono o hanno vissuto in ville o cascine sotto il cui tetto coabitavano nonni, genitori e figli; magari su piani diversi, come fossero appartamenti separati, ma comunque sotto lo stesso tetto. 

Del resto, siamo pur sempre l'Italia, una nazione in cui "tengo famiglia" potrebbe essere scritto sulla bandiera (cit. Marco Travaglio): se abbiamo una cultura della famiglia così forte da dare origine a fenomeni come i clan mafiosi o il nepotismo, è così impensabile che qualcuno semplicemente voglia star vicino ai propri genitori, invece di sfruttarli fino ai 20-25 anni per poi abbandonarli proprio nell'ora del bisogno, cioè la loro vecchiaia? Non a caso, talvolta sono i genitori stessi che non vogliono lasciar allontanare i figli.

E sticazzi?
L'articolo di Repubblica, in particolare, cita come siano i figli delle famiglie più benestanti a rimandare di più l'indipendenza abitativa, e da un punto di vista freddamente razionale è sensato: se una famiglia possiede già una casa abbastanza grande da ospitare comodamente un secondo nucleo famigliare, che motivo logico avrebbe il figlio/la figlia di prendere e andarsene in un appartamentino in affitto, riducendo il proprio tenore di vita, magari avendo comunque bisogno di aiuti economici, quando potrebbero unire le forze e vivere tutti meglio (lui, loro, e il coniuge)? Se i genitori possiedono una cascina a tre piani con un fienile e un po' di terreno, per quale astrusa ragione autolesionistica il figlio dovrebbe trasferirsi a 20 anni per andare a stare in un monolocale, invece di magari aspettare i 30 e comprarsi una casa più adatta alle proprie esigenze, che sia davvero quella "definitiva"? 

Per il bisogno di privacy e indipendenza, per il desiderio di essere altrove, per incompatibilità, per necessità pratiche, per inseguire i propri sogni, per sfuggire da situazioni difficili, certo, i possibili motivi possono essere migliaia, e sono tutti validi; ma si tratta appunto di desideri e bisogni, ovvero ragioni soggettive e non universalizzabili. Io potrei a 22 anni sentire il bisogno di avere uno spazio mio, qualcun altro potrebbe sentirlo già a 14, qualcun altro potrebbe sentirlo ma non abbastanza da rinunciare ad altre cose considerate più importanti, qualcun altro ancora potrebbe non sentirlo affatto.

La gamma di situazioni possibili è talmente ampia che parlare per assoluti e per universali, partendo da questi dati per lanciare invettive contro i giovani "mammoni", è semplicemente idiota. Soprattutto se queste sono lanciate da persone che sono state assunte a tempo indeterminato dopo due anni di superiori e sono andate in pensione a cinquant'anni, contro giovani a cui viene chiesta una laurea quinquennale anche solo per fare le fotocopie nell'ambito di un contratto di apprendistato e che sentono parlare di alzare l'età pensionabile a 67 anni.

L'Italia non è l'America, perché giudicare la nostra situazione col metro americano? Oggi non è quarant'anni fa, perché giudicare la nostra situazione col metro del boom economico? Il pavanese affezionato alla propria terra non è il milanese cittadino del mondo, tant'è che anche i dati del Sole 24 Ore rilevano la nettissima differenza fra piccoli paesi e grandi città. Il figlio del proprietario di una villa non è il figlio dell'affittuario di un appartamento da 100 metri quadri. Il figlio di un genitore amorevole e malato non è il figlio di un ubriacone violento.

Coloro che tuonano che, a prescindere da qualunque altro fattore, lasciare casa e vivere da soli entro un certo compleanno sia l'unico e il solo modo per diventare adulti maturi in una società sana, e quindi che chi non lo fa è un mammone parassita della società fannullone o tempora o mores dove andremo a finire signora mia… ecco, forse proprio loro dovrebbero tornarci un po', dai genitori, perché mi sembra che abbiano ancora molto da crescere.


16 nov 2017

[About me/Rant] Project I.G.I., o Come ho capito di non essere più il gamer di una volta

"Think your way in, shoot your way out". Sì, ce l'ho in una di quelle edizioni secondarie con copertine orribili.
Avevo questo FPS semi-realistico con forti tinte stealth dal 2004. Me lo ricordo, perché quando ho sentito la notizia dello tsunami dell'Oceano Indiano ci stavo giocando. Me lo sono visto segnato come "non finito" sul mio Backloggery e ho deciso, d'impulso, di reinstallarlo. Anche perché mi mancava una sola missione per finirlo: ricordo le DECINE e DECINE di tentativi a vuoto, a ripetere meticolosamente le strategie vincenti per poi venire ucciso all'ultimo scontro perché mi ci ero trascinato col 20% di salute e senza medpack. 

Ciò nonostante, ne avevo ancora degli ottimi ricordi. Ah, come cambia il modo di approcciarsi alle cose quando hai la metà del tempo libero, il doppio degli anni, il triplo dello stress e il quadruplo degli impegni!  

Non voglio dire che Project I.G.I. sia una schifezza. Dico solo che se una volta mi divertivo a ritentare le missioni ancora e ancora, per farle un po' meglio, per non far scattare gli allarmi, per trovare il percorso migliore con cui headshottare tatticamente le guardie, oggi alla seconda missione mi sono scaricato una cheat per l'invulnerabilità perché mi ero stufato di ripetere sempre le stesse operazioni.

In parte, è colpa del gioco
. Le missioni sono sì lunghe e ambientate in splendide mappe vaste e non-lineari (nelle quali trovare la strada migliore per evitare pattuglie e telecamere, sfruttare i punti di vantaggio, attaccare il più silenziosamente possibile ecc. è parte integrante della sfida), ma maledizione non ci sonocheckpoint né possibilità di salvare nel mezzo della missione, il protagonista è realisticamente molto vulnerabile e i medpack sono pochi, quindi basta un errore minuscolo (magari all'ultimo sprint per l'obiettivo!) per essere rimandati all'inizio. Una roba del genere era inaccettabilmente arcaica già nel 2001.


Si hanno, sì, a disposizione tutti gli strumenti per pianificare accuratamente il proprio approccio (una mappa satellitare con anche la posizione delle guardie esterne, un binocolo che tagga automaticamente i nemici in vista, layout degli edifici abbastanza "standard" da sapere cosa si potrà trovare in ognuno di essi...), però i nemici ti vedono e centrano anche da un bunker seminterrato sulla superficie di Marte, e negli interni sono posizionati in modo da poter essere affrontati veramente solo tramite trial-and-error. Un conto è morire perché ci si è fatti scoprire da una guardia i cui movimenti si sarebbero potuti prevedere, un conto è morire perché si apre la porta di un ascensore non-aggirabile e dietro ci sono due tizi con uno shotgun. E poi, diciamocelo, quando ci sono mappe in cui il punto di spawn è direttamente sulla linea visiva di due-tre soldati, uno dei quali un cecchino in grado di stenderti con due colpi... c'è una linea abbastanza netta fra la difficoltà e la presa per il culo, e Project I.G.I. tende a scavalcarla spesso.

Spesso le missioni iniziano così, con l'intera mappa sotto di sé per pianificare il proprio percorso. Screenshot da fansshare.com.

Quindi, è un gioco molto frustrante, che richiede tanta attenta strategia quanto cieco trial-and-error, ma ha i suoi pregi e punti d'interesse, e persino d'innovazione, per l'epoca. Devo ammetterlo: la colpa di questa mia reazione è anche mia. Mia, che fra lavoro, progetti musicali, fidanzata e impegni vari non ho più tutto il tempo libero che avevo una volta. Mia, che da quando devo investire la mia pazienza su colleghi rompicoglioni, menomati mentali che non mettono la freccia in rotonda, e bestie incivili che su corriere strapiene siedono nel posto corridoio lasciando borse sul posto finestrino, non ne ho più per reggere un certo tipo di frustrazione. Mia, che da quando ho Steam e uno stipendio sono preda dell'ansia del "so many games, so little time". Mia, che dopo anni di passione e letture un minimo di concezione (quantomeno personale, quantomeno intuitiva) di cosa sia buon game design me la sono fatta, e non sono più disposto a tollerare enigmi forzati, difficoltà mal strutturate, boss osceni, controlli fatti coi piedi, e exploit spacciati per difficoltà legittima (vedi le mie recenti esperienze con I Have No Mouth and I Must Scream, Crash Bash, Dark Souls, DOTA2, e appunto Project I.G.I.). Mia, che non ho più la testa di sbattermi per ore su un singolo problema senza progredire, solo per il gusto della sfida.

Non posso non chiedermi se sia una conseguenza inevitabile dell'invecchiare, questo arrendersi prima, questa minor disponibilità a investire ore sulla ripetizione infruttuosa, questo rendersi conto che non siamo più ragazzini con tanto tempo libero e perciò che certi risultati da "agonismo videoludico" sono ormai scivolati al di là della nostra portata. Oppure, se più in generale non siano cambiati i tempi, e con un'offerta sempre più ampia e di qualità il grosso del pubblico videoludico non veda più questo medium come una macchinetta mangiamonete in cui raggiungere l'high score per farsi fighi col gruppo di amichetti. Oppure, se non sia un problema psicologico-generazionale, ché fra la sovrastimolazione dell'internet, la velocità della comunicazione moderna, la mia bassa sopportazione allo stress, e la mia storia di depressione e scarsa vita sociale ho passato troppo tempo isolato in un mondo "virtuale", lontano da quello reale, nel quale mi sono "viziato" di soluzioni immediate. O forse, se non siano semplicemente cambiati i miei gusti, che con la graduale perdita di interesse nell'aspetto "agonistico" e competitivo del gioco (soprattutto da quando ho abbandonato i MOBA) mi hanno portato a cercare il videogame come un'esperienza contenuta, personale, rigorosamente solitaria, e soprattutto lontana dal diventare un'ennesima fonte di stress e frustrazione.




Esistono delle misure oggettive per giudicare se e fino a che punto la difficoltà di un videogioco sia ben calibrata, e titoli come Project I.G.I. fanno scattare l'allarme in più punti. Tant'è che già all'epoca fu aspramente criticato per l'IA dei nemici e per la mancanza di un sistema di salvataggio. Eppure, non riesco a togliermi dalla testa la semplice constatazione che io stesso, una volta, ero quasi riuscito a batterlo; senza trucchi, senza guide, senza incazzarmi. Mentre oggi, con tutti gli anni di esperienza videoludica in più che dovrei avere, ho usato le cheat, perché la sola idea di essere rimandato all'inizio del livello prosciugava istantaneamente la mia pazienza. E non riesco a capire esattamente il perché.

Ah, incidentalmente: tredici anni di attesa, tanta fatica per scaricare le cheat che mi hanno lanciato in questa serie di ragionamenti astratti, e poi il finale del gioco fa pure cagare.

13 nov 2017

[Recensione] The Boy and the Beast

バケモノの子, 2015

L'ultima opera del mio amato Mamoru Hosoda (che ho personalmente sempre favorito a Makoto Shinkai per la conquista del mantello di "nuovo Miyazaki") parte un po' "svantaggiata" rispetto ai film precedenti, per via della mancanza dei collaboratori Sadamoto e Okudera con cui aveva prodotto i capolavori Wolf Children e La Ragazza che Saltava nel Tempo, ma raggiunge un risultato comunque coinvolgente e di qualità che, tuttavia, non lascia un impatto duraturo e dà un po' l'impressione di non saper esattamente dove voglia andare a parare. 

Bakemono no ko presenta i tratti tipici del Bildungsroman, arricchendoli con elementi fantastici, comici, da arti marziali, e con l'obbligatoria citazione a Viaggio verso occidente (nella forma degli "aiutanti" del protagonista, la scimmia e il maiale monaco); la trama segue Ren, un ragazzo di nove anni che, dopo la morte improvvisa della madre già divorziata, scappa dalla famiglia per vivere, da solo, per le strade di Shibuya. Lì viene notato da Kumatetsu, una bestia-spirito a forma di orso alla ricerca di un apprendista, e lo segue nel mondo delle bestie. Kumatetsu è uno dei due pretendenti alla successione del Gran Maestro di quel mondo, un coniglio ormai prossimo alla reincarnazione sotto forma di divinità, ma sembra essere lo sfavorito rispetto al cinghiale Iōzen, che gli è superiore sia in termini di abilità marziali che di supporto della popolazione. Kumatetsu, infatti, è malvisto a causa del suo pessimo carattere e della sua mancanza di disciplina e compassione. Ren è però stranamente ammirato dalla determinazione con cui Kumatetsu continua a combattere nonostante la mancanza di qualunque incoraggiamento dal pubblico. Il mostro e il bambino, entrambi cocciuti, entrambi burberi, vicendevolmente ostili, si troveranno nel tempo a imparare l'uno dall'altro e a maturare insieme.


Al contrario di Shinkai, che sembra partire dalla sua tipica storia di una coppia separata da circostanze straordinarie e poi cerca un espediente fantastico/fantascientifico per creare quella distanza, Hosoda sembra partire dal setting, dall'elemento fantastico, per poi finire sempre in qualche modo con l'inserirci una storia di maturazione individuale o corale in cui i protagonisti si trovano chiusi fra nature o desideri opposti. In questo caso, le tensioni opposte sono date (in modo non troppo dissimile da Wolf Children) dal mondo dei mostri contro quello umano, dalla "famiglia surrogata" dei mostri contro quella "di sangue" degli umani, da un'oscurità dell'animo umano che persino i mostri temono contro la sua plasmabilità tramite l'impegno, lo studio, la compassione, e il rapporto con gli altri. Molti sono i paralleli che si creano fra il ragazzo e altri personaggi, in particolare Ichirōhiko, lasciando intuire una stratificazione di significati non da poco. I quali, però, sembrano perdersi un po' nel proprio stesso turbinìo, nell'intreccio stesso delle varie sottotrame, facendo sì che il tutto risulti, alla fine della visione, un po' oscuro e fine a sé stesso

Manca, cioè, quel senso di aver assistito a qualcosa con un significato da portarsi dietro nelle proprie vite quotidiane, di essere stati scossi nel profondo delle proprie emozioni; il che, mi rendo conto, non è tanto un vero e proprio difetto di questo film quanto un problema delle aspettative troppo alte che il nome di Mamoru Hosoda ha creato in me. Del resto, sono stato lasciato similmente non entusiasmato da I sospiri del mio cuore dello Studio Ghibli, un ottimo e coinvolgente slice-of-life il cui unico difetto è essere semplicemente "una bella storia", senza la stratificazione di temi e messaggi di un Una tomba per le lucciole o de La città incantata. 


Tuttavia, storia e personaggi di The Boy and the Beast rimangono solidissimi e interessanti anche a livello superficiale, rendendo questo un ottimo film per famiglie. Semplicemente, non è al livello di Wolf Children. Ma ehi, siamo onesti, niente è al livello di Wolf Children.

8 nov 2017

[Recensione] Wolf Children - Ame e Yuki i bambini lupo

おおかみのこども雨と雪 - Ōkami no kodomo Ame to Yuki, 2012
Il regista Mamoru Hosoda è emerso prepotentemente sulla scena dell'animazione solo nel 2006, e tutt'oggi in Occidente è spesso un po' più in secondo piano rispetto ai più noti Makoto Shinkai, Satoshi Kon, e ovviamente Hayao Miyazaki; eppure, molti della mia generazione, inconsapevolmente, l'avevano già conosciuto bene anni prima, quando aveva diretto i primi due mediometraggi e il particolarissimo episodio 21 di Digimon Adventure (e, più recentemente, con il cupissimo One Piece: L'isola segreta del barone Omatsuri). Ricordo che già all'epoca notai la differenza fra il resto della serie e quell'episodio, perché il suo stile di disegno e di direzione era già distinto e riconoscibilissimo: l'alone di leggerezza quasi eterea, la morbidezza dei tratti, le espressioni facciali dettagliate, la dinamicità delle scene "d'azione", le peculiari scelte di colonna sonora (il Bolero di Ravel che surrealmente accompagna l'intero Digimon Adventure! Quel cazzo di coro fighissimo nella scena dell'evoluzione in Bokura no war game, benedetta l'anima di Takanori Arisawa!), quell'impostazione di alcune scene a creare momenti come di "sospensione", di silenzio, sia a scopo comico che drammatico. Solo molti anni dopo avrei saputo descrivere questo stile e attribuirlo al suo nome, ma me ne innamorai subito.

Wolf Children è il suo terzo film "solista", dopo Summer Wars e La ragazza che saltava nel tempo, e come nei precedenti si avvale della preziosa collaborazione di Satoko Okudera alla sceneggiatura e del character design dello straordinario Yoshiyuki Sadamoto (le cui illustrazioni di Evangelion dovrebbero essere tipo esposte al Louvre e agli Uffizi). Ma se il primo film era enormemente ispirato a Digimon Adventure: Bokura no war game! e il secondo era un semi-sequel del romanzo omonimo, questo è basato su una storia di Hosoda stesso.



La trama è incentrata su Hana, la protagonista, che si innamora di un ragazzo incontrato all'università. In breve scoprirà che il ragazzo è in realtà un uomo-lupo, in grado di trasformarsi a piacimento ma dalla natura mista. insieme avranno due figli, Yuki e Ame, anch'essi mezzi-lupo. Hana si ritrova così a dover formare due piccole vite senza essere ancora diventata lei stessa un'adulta, ed emerge come eroina imperfetta del film, fra le sue incertezze e i suoi errori e il suo amore, in un modo che riesce a essere sia perfettamente immerso nella specificità di questa storia (emblematica, a mio avviso, la divertentissima scena in cui, quando Yuki si ammala, Hana non sa se portarla dal pediatra o dal veterinario) sia perfettamente universale, elevabile ad archetipo delle difficoltà e delle scelte che ogni madre, ogni genitore, si trova ad affrontare. Hosoda mette in scena una versione "ingigantita" della fatica di crescere dei figli e di vederli scegliere strade che non ci si aspettava, che magari non si sarebbero volute per loro; ingigantita, eppure identificabilmente reale. Ma è importante notare come il focus sia tanto sulla sfida della madre quanto su quella dei due bambini, la cui personalità e il cui sviluppo sono presentati in modo molto intelligente, e il cui sforzo per scegliere cosa essere, per trovare il proprio posto in in un mondo a cui nascondere costantemente una parte di sé, è sì reso "straordinario" dal fatto che sono due lupi, ma non è poi così diverso da quello che si presenta ad ogni bambino, ogni teenager, e quindi ad ogni adulto che li deve guidare.

È una parola impegnativa, ma non riesco a definirlo se non capolavoro. Come la Santa Trinità (Hosoda, Okudera, Sadamoto, nel nome della Regia, della Sceneggiatura, e del Chara Design, amen) si è già dimostrata in grado di fare, anche Wolf Children gestisce meravigliosamente una serie di umori e di emozioni molto ampia: comicità, tragicità, speranza, dolcezza, tensione, gioia, e l'obbligatorio lacrimone sul solito finale dolceamaro che tanto mi piace. La regia e la musica sono qualcosa di eccezionale persino per gli standard già alti di Hosoda. Oltre a tante cose tipiche del suo stile (come quelle lunghe scene su campi lunghi senza battute, in cui sono solo le azioni ed i gesti dei personaggi a parlare), ci sono alcune sequenze semplicemente maestose, magiche, e altre in cui rivelazioni o cambiamenti sono gestiti in modo veramente geniale. Quella con la famiglia sulla neve, ad esempio, semplicemente toglie il fiato. Con quanta semplicità riesce a dare l'idea della ripetizione, della costanza di certi elementi nella vita quotidiana dei bimbi! Una nota di merito va peraltro al doppiaggio italiano e all'adattamento Dynit, molto ben fatto, e no non prendo soldi dalla Dynit per incensarli a ogni recensione. Per ora. Possiamo trattare, però, eh!


LA scena.

Insomma, lo ritengo un must, e non solo per gli amanti di anime. Un film stupendo che gestisce in maniera superba un vasto spettro di situazioni, umori ed emozioni, e lascia dentro qualcosa di umano e sovrumano al tempo stesso. Il senso della forza di un singolo e della forza di una colletività solidale, il senso della difficoltà dell'amore, il senso delle strade strane che può prendere "lo strano percorso di ognuno di noi". "Che neanche un grande libro un grande film potrebbero descrivere mai", cantava Pezzali, ma questo film forse ci va abbastanza vicino.


All'epoca dell'uscita del film, molti paragonavano Hosoda a Miyazaki (come poi fu fatto con Shinkai per Your Name, ma tant'è), ma credo fosse un paragone forzato, perché i due hanno sempre fatto cose molto diverse, nonostante la loro comune abilità di creare opere di vasta presa ma permeate di una affascinante stratificazione di temi. La mia impressione, del tutto personale, è che Wolf Children sia un pochino più "adulto" rispetto alla favola miyazakiana media, nel senso che i suoi temi centrali necessitano una prospettiva sulla vita che credo un bambino o un pre-adolescente non abbiano, ma potrei sbagliarmi. Inoltre... mi rendo conto che sto per fare una dichiarazione impegnativa, di quelle da cui non si torna indietro, però... mi è piaciuto di più di qualunque film di Miyazaki io abbia visto finora. Ecco, l'ho detto.

20 ott 2017

[Rant] Il secondo rischio del complottismo: l'anticomplottismo

Il complottismo è sempre stato uno dei grandi cancri dell'internet, quindi nessuno si sorprende se nell'era della post-verità abbia trovato ampio terreno dove attecchire e diffondersi. Ormai conosciamo i rischi del credere al primo sito altervista che giura di aver scoperto le prove che il governo brutto e cattivo vuole ucciderci tutti nel nome di una massoneria onnipresente composta da villain fra cui figurano Iago, Blofeld, Rockerduck, Charles zi Britannia, Melkor Morgoth, il cancelliere Palpatine, e ovviamente il tuo capo, sì, proprio il tuo, mica credevi che fosse semplicemente uno stronzo come tanti datori di lavoro italiani? Il movimento antivax è forse l’esempio più recente e plateale, ma possiamo anche ricordare il movimento anti-olio di palma. 

Ma io vorrei far notare anche un altro rischio, più subdolo ma non meno reale: l’anti-complottismo a priori. Ovvero, credere acriticamente a quello che viene annunciato, e reagire pavlovianamente a chiunque ponga il benché minimo dubbio sulle notizie ufficiali gridando al complottista, all'analfabeta funzionale, al populista e, ovviamente, al grillino (perché non c'è peggior idiota di chi crede che solo nello schieramento avverso stiano gli idioti).

Sì, perché c'è una bella differenza fra chi si fa domande sull'utilità e la potenziale dannosità dei vaccini e chi rimane inamovibilmente convinto che causino l’autismo nonostante le prove inoppugnabili del contrario. C'è differenza fra "ho qualche dubbio che quattro aerei dirottati possano viaggiare liberamente per così tanto tempo senza essere intercettati e che un edificio toccato da danni perimetrali e lievi incendi possa crollare in verticale dalla base" e "gli aerei erano dei missili also è colpa degli ebrei". C'è differenza fra evidenziare incongruenze e illogicità in ricostruzioni ufficiali e dire che la sparatoria è stata orchestrata dalle lobby anti-armi per attaccare il vostro prezioso secondo emendamento. C'è differenza fra pensare che ci possano essere accordi economici fra trafficanti di uomini e entità criminali italiane e credere fermamente che esista un Piano Kalergi dei Poteri Forti™ per il genocidio dei bianchi e sostituirci tutti coi nekri cacca pupù. Insomma, la differenza fra una persona dotata di raziocinio e senso critico, e Carlo Sibilia. 

Altrimenti, a furia di “dagli all’untore” di fronte al minimo paventare retroscena segreti, si finisce col fare la figura del cretino. Come quei politici che accusavano il (pur ormai indifendibile) Luigi Di Maio per le sue parole sulle ONG prima che un magistrato della Repubblica e le stesse decisioni del governo italiano dimostrassero che proprio tutti i torti non li aveva. O come quel meraviglioso commentatore facebookiano che ne accusò un altro di essere un "complottista analfabeta funzionale fascista grillino Alex Jones cacca pupù" perché aveva parlato dell'Operazione Gladio e dell'Operazione Northwoods, evidentemente non sapendo che queste non sono teorie cospirazioniste ma verità storiche dimostrate, con tanto di documenti de-secretati della FBI e candide ammissioni dalle vive voci di Andreotti e Cossiga. Il senso critico va applicato nel merito dei fatti, caso per caso, altrimenti gli anti-complottisti finiscono per dimostrarsi ignoranti e aprioristi quanto i complottisti.

Non vorrei che, nel nostro pur sacrosanto sforzo di contrastare le fake news e i creduloni depensanti del web, finisse col passare l'idea che le operazioni false flag siano un'invenzione di Napalm51 nei primi anni 2000. La strategia della tensione, con parti dei servizi segreti che aiutavano e coprivano il terrorismo nero, è successa. Il supporto CIA per fomentare e dirigere colpi di stato in paesi sudamericani o mediorientali è un fatto accertato. I poliziotti agitatori infiltrati durante il G8 di Genova (e non solo) sono un fatto accertato. Che la versione ufficiale dell'epoca dell'incidente del Golfo del Tonchino sia stata falsificata (al punto da inventare completamente l'attacco del 4 agosto) al preciso scopo di creare un casus belli contro il Vietnam è una verità storica sostenuta persino da una relazione della NSA. Non c'è motivo di pensare che oggi cose di quel tipo non esistano, o quantomeno non possano assolutamente esistere.

Del resto, io se fossi un banchiere massone illuminato col cilindro, che si arriccia i baffetti fumando un sigaro e accarezzando un persiano su una sedia in pelle umana, sapete cosa farei? Diffonderei voci sconclusionate sul mio conto. Darei più visibilità possibile a gente come Alex Jones e Paolo Barnard. I cospirazionisti che propagano teorie chiaramente folli e ridicole sarebbero I miei migliori alleati, coscientemente o meno, perché… ricordate la favola di Pierino e il lupo? Se anche mai qualcuna delle mie effettive "cospirazioni" venisse fuori, chi la noterebbe in mezzo all'orgia di siti-fuffa e improbabili giri di prostituzione minorile nascosti nello scantinato di una pizzeria? Chi ci crederebbe?

C'è molto middle ground fra il credere ad ogni belinata letta su internet, rifiutando a prescindere qualsivoglia fonte d'informazione tradizionale ("EVERYBODY IS FAKE NEWS! Except Breitbart/Tze Tze, of course"), e il credere a prescindere alle fonti d'informazione tradizionali (solo quelle che ci danno ragione, naturalmente; perché loro non hanno mai deliberatamente distorto o fatto cherry-picking con le notizie, nevvero?), rifiutare a prescindere anche solo il dubbio. Un middle ground fatto di senso critico, analisi individuale, memoria storica, valutazione specifica di prove e incongruenze. Ricordiamo sempre la favola di Pierino e il lupo, ma anche il vecchio adagio per il quale anche un orologio rotto segna l'ora giusta due volte al giorno.

4 ott 2017

[Commenti] Star Wars - Dark Forces (serie)

Star Wars: Dark Forces



Dall'epoca in cui il brand Star Wars non tappezzava ogni centimetro quadrato dell'universo conosciuto e il circle-strafing era ancora la soluzione a tutti i problemi della vita, riemerge uno sparatutto che, pur impiantandosi dei tanti "cloni" di Doom, era riuscito a portare una ventata di novità, sia nel genere che nel proprio franchise. Dark Forces è ancora oggi un piccolo gioiello, anche se un po' sporcato dagli anni: a parte alcune innovazioni tecnico-fisiche di discutibile importanza, fu il primo FPS a cercare una maggiore integrazione fra il gioco e la storia, attraverso missioni con obiettivi più elaborati, mappe più varie, personaggi con un minimo di personalità, e sequenze animate e doppiate.

La trama introduce Kyle Katarn, mercenario al soldo dell'Alleanza Ribelle e versione starwarsiana di Chuck Norris, che dopo aver rubato con successo i piani della Morte Nera (yep, non me ne frega niente di episodi VII e di Rogue One, i piani della Morte Nera li ha rubati Katarn. Perché non esiste un Ordine dei Sith, solo una lista di Sith a cui Kyle Katarn permette di vivere) si trova coinvolto nel combattere un pericoloso progetto imperiale che minaccia di spazzare via i ribelli. Anche scusando l'irrealismo del vedere un singolo mercenario sterminare senza grosse difficoltà numeri a tre cifre di soldati imperiali e mercenari (perdonabile, considerando che l'abilità di distruggere un pianeta è insignificante in confronto alla potenza di Kyle Katarn), la trama non ha granché di cui vantarsi, ma funziona nel creare un contesto e una motivazione alle azioni del giocatore, e funziona nel creare in particolare due personaggi (Kyle Katarn e Jan Ors) d'impatto.

Il vero focus ovviamente è nel gameplay frenetico e intenso alla Doom: decine di nemici sullo schermo, munizioni e salute da raccogliere e conservare, chiavi da trovare, esplorare ogni anfratto alla ricerca di provviste o porte o interruttori; e ovviamente decine e decine di stormtrooper che cadono sotto un'impietosa pioggia di blaser, quindi fuck yeah crepate fascisti bastardi. Indubbiamente ha alcuni difetti che ne tradiscono l'età: alcune mappe sono spaventosamente confusionarie; il sistema "a vite" era obsoleto già all'epoca, figuriamoci oggi; alcune delle armi, per quanto varie e divertenti, risultano quasi inutili, considerando che la maggior parte delle mappe si svolge in luoghi troppo chiusi perché usare armi esplosive non risulti controproducente, soprattutto in relazione a quanto più facile sia trovare munizioni per le altre. Nonostante ciò, il divertimento e la catarsi nelle fasi più concitate del gioco sono più che sufficienti a compensare. Non importa quella terribile mappa nel ghiaccio, o quel Boba Fett a sorpresa che mi ha costretto a ricominciare il livello perché porco cane già il livello è difficile e lunghissimo come diavolo avrei potuto immaginarmelo: ho appena steso un drago a mani nude e adesso sono nella Executor e sto macinando stormtrooper come una mietitrebbia, tu non sei mai riuscito a fare una roba del genere, Skywalker! Rimane un gioco valido sia per fan di Star Wars che per fan dello sparatutto vecchio stampo, e una piccola pietra miliare.


Star Wars: Jedi Knight - Dark Forces II


La saga del Chuck Norris della galassia lontana lontana continua in Dark Forces II - Jedi Knight, in cui il mercenario Kyle Katarn, mentre è impegnato nell'inseguimento di un droide in possesso di una mappa che apparteneva a suo padre, viene a scontrarsi con un gruppo di sette Jedi Oscuri alla ricerca della leggendaria Valle dei Jedi, imparando lui stesso le vie della Forza.

Jedi Knight viene da quell'epoca di transizione nella storia del videogioco, in cui il CD era abbastanza grande da ospitare giochi interamente in tre dimensioni, con pure abbastanza spazio avanzato per farci stare delle scene FMV live action (recitate malissimo e scritte peggio), ma in cui la grafica 3D non era abbastanza avanzata da non farti pensare che forse gli sprite 2D di Doom e i disegni di Monkey Island erano più realistici. Oltre che più dignitosi. Come gameplay, arricchisce la tipica struttura dello sparatutto classico (nove armi, protagonista solo contro tutti, esplorare e aprire porte ecc.) introducendo la possibilità di giocare in terza persona, e, soprattutto, la spada laser e i poteri della Forza. E se in Dark Forces strafare intorno a gruppi di stormtrooper falciandoli con una pioggia di blaster era divertentissimo, corrergli incontro deviando i loro colpi o rubandogli l'arma con la Forza per poi abbatterne due o tre con un solo fendente di lightsaber è, tipo, la ragione per cui è stato inventato il videogioco.

La storia è lineare e di scarsissimo valore, con personaggi vari ma superficiali e poco interessanti (esclusa la dinamica fra Kyle e Jan Ors, di cui, sia sempre chiaro a tutti, Jyn e Cassian sono solo una pallida imitazione, perché Kyle Katarn ha fatto la rotta di Kessel in 2 parsec. A piedi.), ma non è né ha mai preteso di essere il focus del gioco. I sette Dark Jedi servono solo a fornire una serie di epici duelli, e in questo senso funzionano molto bene: impegnativi e catartici. C'è anche una sorta di "karma system" ante litteram, ovvero una meccanica Lato Chiaro-Lato Oscuro: alcune azioni nel corso del gioco e la scelta di quali poteri sbloccare portano Kyle verso il Lato Chiaro o il Lato Oscuro, e il lato prevalente determina, a un certo punto del gioco, in quale di due possibili direzioni prosegue la trama, verso quindi un "finale buono" e un "finale malvagio". Se la mia memoria non mi inganna, questa è la prima apparizione di questo sistema, che diventerà una presenza stabile in molti giochi di Star Wars.

Insomma, un classicone "ingenuo" e con la sua dose fisiologica di difetti (mappe confusionarie, parecchio trial-and-error, picchi di difficoltà che sanno un po' di forzato, utilizzo dei poteri un po' macchinoso), ma indimenticabile, divertente e coinvolgente, soprattutto grazie ai duelli Jedi, all'uso della spada laser, e al fatto che Kyle Katarn è obbiettivamente un figo inarrivabile. A proposito, Kyle Katarn ha sparato prima di Han.



Star Wars Jedi Knight: Mysteries of the Sith


Uscita pochi mesi dopo il rilascio del primo, leggendario Jedi Knight, questa espansione potrebbe essere considerata un seguito vero e proprio: nonostante il gameplay sia fondamentalmente invariato, presenta dei poteri della Forza in più, un level design eccezionale, una storia canonica (almeno nell'Universo Espanso, prima della Great EU Purge della Disney), una difficoltà non indifferente, delle cutscene fatte direttamente col motore del gioco, e una durata pressoché identica a quella del titolo principale. La trama è ambientata cinque anni dopo la sconfitta di Jerec, con un Kyle Katarn ormai Maestro Jedi e ufficiale della Nuova Repubblica che ha preso un'apprendista, Mara Jade, della quale vestiremo i panni per la maggior parte del gioco. Durante una battaglia contro le forze dell'Impero Rimanente (i rimasugli dell'Impero rimasti in piedi dopo la caduta di Palpatine), Kyle scopre di un antico tempio Sith su Dromund Kaas che l'Impero sembrava cercare di tenere nascosto, e va a investigare, lasciando il campo a Mara.

Il gioco in sé ha poche differenze sostanziali dal primo Jedi Knight. Il fatto che si cominci essendo già Jedi fatti e finiti, però, accentua di molto quel problema che già in parte aveva l'ultimo terzo del titolo originale: quello di dare troppe possibili soluzioni a problemi tutto sommato semplici. Nel senso che, quando hai una lightsaber e dei poteri della Forza che ti permettono di disarmare, diventare invisibile, vedere al buio, strozzare, fulminare, curarti ecc., sinceramente, che cosa te ne fai dei blaster? A chi verrebbe in mente di tirare fuori un blaster quando ha una spada laser, se non in quelle tutto sommato rare volte in cui ci si trova ad affrontare corazzati o nemici in posizioni rialzate? La mia combo preferita (Force Pull per disarmare e Force Grip per uccidere) è efficace su tutti i nemici umanoidi, e non smette mai di essere divertente. Il calo di importanza del fattore shooter, però, è persin giustificato alla luce degli ultimi tre livelli, in cui le armi non funzionano e bisogna fare affidamento esclusivamente sui propri poteri Jedi.

Peccato, però, che quei tre livelli rappresentino anche un picco di difficoltà semplicemente irragionevole, sia dal punto di vista dell'azione che dal punto di vista dell'esplorazione e degli enigmi. Molti li considerano i livelli di maggiore qualità del gioco, mentre io invece li ho trovati insopportabili. Fra animali immuni alla Forza, quelle tigri di merda che prendono tre colpi di lightsaber e bi-shottano con balzi da distanze assurde, sezioni subacquee di puro trial-and-error (=se non ci si muore almeno tre-quattro volte, è impossibile sapere anche solo da che parte bisogna andare) e un'architettura confusionaria, c'è da passare delle ore solo sull'ultimo livello. Il fatto che il giocatore possa scegliere quali poteri sviluppare e quanto potenziarli, poi, crea delle pesanti disparità una volta arrivati in questa sezione: se non avete Force Healing e Force Absorb, lasciate perdere, ricominciate il gioco da capo, non avete nessuna possibilità di vincere; se non avete Force Jump e Force Speed abbastanza sviluppati, avrete delle difficoltà molto maggiori a muovervi; se avete messo tanti punti in Force Grip e Force Deadly Sight, vi ritroverete con una parte importante del vostro arsenale resa completamente inutile. 

Bella l'atmosfera da "Tomb Raider se Lara Croft fosse una Jedi", per carità, ma io a un certo punto sono stato costretto a usare le cheat perché la cosa stava diventando surreale.

Ho anche delle lamentele sulle due boss fight di questa zona: il primo è un boss-spugna che prende botte per mezz'ora prima di capitolare, e il secondo... beh, è molto apprezzabile il fatto che l'unico modo per batterlo sia adottare una strategia allo stesso tempo non convenzionale eppure perfettamente da Jedi, è una cosa intelligente anche a livello narrativo, ma non sono sicuro che sia stata implementata in modo sufficientemente intuitivo nel contesto di un gioco in cui le botte sono stata l'unica soluzione adottabile; nel senso che mancano indizi per spingere il giocatore verso quella decisione, anzi, mancano proprio indizi per spingere il giocatore a pensare strategie alternative, se non il semplice "lo sto menando da mezz'ora ed è ancora vivo". Sono pronto a scommettere che molti giocatori della prima ora abbiano superato questo scontro totalmente per caso, magari premendo inavvertitamente il tasto giusto al momento giusto.

Ma queste mie lamentele non vi scoraggino, perché grazie a Dio esiste GameFAQ, e Mysteries of the Sith rimane un più che degno successore del classicone che è stato Jedi Knight

Per i fan di Star Wars, poi, rappresenta una pietra miliare anche dal punto di vista del lore, in quanto è stato la prima volta in cui opere di media diversi nell'Universo Espanso si sono basate l'una sull'altra e si sono influenzate a vicenda: Mara Jade, infatti, è comparsa per la prima volta nella trilogia letteraria "L'erede dell'Impero" di Timothy Zahn, e la sua storia è data come già nota nel gioco, che così diventa una tappa ulteriore del suo sviluppo (da contrabbandiera e spia dell'Imperatore a caposaldo del Nuovo Ordine dei Jedi, e, più avanti, moglie di Luke Skywalker); similmente, gli eventi di Mysteries of the Sith verranno considerati canonici non solo nei successivi videogiochi della serie, ma anche nei libri e nei fumetti che continuano la storia della Nuova Repubblica, nei quali sia Mara Jade che Kyle Katarn continueranno ad avere un ruolo importante. Insomma, questo titolo ci ricorda l'epoca in cui autori e media diversi contribuivano a fare di Star Wars una mitologia ampia e collettiva, prima che arrivasse la Disney a cagarci sopra per sostituirle con storie largamente inferiori sotto tutti i punti di vista.

31 lug 2017

[Recensione/Essay] BioShock: oggettivismo e libertarianismo


BioShock, il gioco che ha portato l'FPS alla System Shock nell'era PS3 e ha ricordato alla generazione che anche gli shooter potevano avere storie complesse e filosofiche. Nonostante possa essere definito non tanto un “sequel spirituale” quanto un vero e proprio calco di System Shock 2 (si farebbe prima a elencare in cosa i due giochi non si somigliano), BioShock può vantare un’atmosfera steampunk originale e una trama tematicamente ricchissima. Parlerò brevemente del gioco in sé, ma vorrei concentrarmi soprattutto su quest'ultimo aspetto.

Ludicamente parlando, è solido ma, a mio avviso, non eccezionale. La caratteristica peculiare di questo FPS è data dai "plasmidi", sostanze ricombinanti che forniscono bonus passivi o abilità attive. Può essere equipaggiato solo un numero limitato di plasmidi, facendo quindi scegliere il giocatore fra molti possibili approcci alle sfide del gioco. 

Lodevolmente, Bioshock riduce la massacrante difficoltà del suo predecessore, ma finisce con l'esagerare nel senso opposto. [...] L'eccellente atmosfera quasi horror perde il suo mordente in un attimo.

In teoria, le possibilità sono davvero molte: una torretta può essere distrutta, hackerata (attraverso un minigame piuttosto tedioso), o elusa tramite esche; un nemico può essere cecchinato, preso a colpi di chiave inglese alle spalle, attirato nell’acqua e fulminato, congelato e fatto a pezzi, trasformato in bersaglio di un Big Daddy o di una torretta ecc. In pratica, però, il fatto che non ci siano limiti a quali potenziamenti si possono equipaggiare, né a quale e quanto equipaggiamento si può portare, né all’efficacia del personaggio con le varie abilità o armi, fa sì che molti plasmidi diventino di fatto inutili o ridondanti (una modifica per lanciare api? Una passiva per far durare gli allarmi qualche secondo di meno? Wow, buon Natale! Posali accanto a quel gigantesco lanciafiamme che fa lo stesso loro lavoro però meglio e in meno tempo).

Lodevolmente, BioShock riduce la massacrante difficoltà del suo predecessore (in cui la mancanza di specifici upgrade entro un certo punto significava di fatto “hai perso, ricomincia da capo”), ma finisce con l'esagerare nel senso opposto: munizioni e medkit sono abbastanza abbondanti da farcisi la doccia, le camere rigeneranti non richiedono attivazione e sono ovunque quindi non c'è nessuna punizione per la morte e nessun incentivo a essere cauti. Così facendo, l'eccellente atmosfera quasi horror perde il suo mordente in un attimo. Data anche la poca varietà di nemici, il tutto diventa molto monotono e molto tedioso molto in fretta. 

Infine, vogliamo parlare del sistema morale? Di quelli alla InFamous, con solo due finali talmente manichei da risultare estranianti? Secondo BioShock, la differenza fra l’essere un filantropo che dedica la vita agli orfanelli e un novello Adolf Hitler che si lancia alla conquista del mondo con un esercito di mutanti è la differenza fra 20/21 e 19/21.

Ma nonostante tutto questo, il gioco rimane uno dei picchi di qualità della sua generazione grazie alla sua atmosfera, allo stile visivo dei suoi ambienti, alla narrativa ambientale e, soprattutto, alla profondità filosofica e politica che viene messa in mostra dall'utopia di Rapture e dalla sua caduta. 

Una profondità forse non così efficacemente trasmessa, ma a mio avviso molto importante, in quanto rende BioShock uno dei pochi videogiochi di alto profilo che include elementi tematici così intimamente politici

Ne farò qui sotto una mia analisi, personale e SPOILEROSISSIMA.

No gods or kings. Except me, of course. I mean, look at this huge statue of me right here. Bow down and obey, parasite.

Il gioco rimane uno dei picchi di qualità della sua generazione grazie alla sua atmosfera, allo stile visivo dei suoi ambienti, alla narrativa ambientale e, soprattutto, alla profondità filosofica e politica che viene messa in mostra dall'utopia di Rapture e dalla sua caduta. 

Rispetto a System Shock 2, il focus non è su IA impazzite o infezioni aliene, ma sulla più semplice (e più interessante) pazzia e ingordigia umana: Rapture nasce come un paradiso libertariano in cui ognuno può trovare il proprio posto col solo frutto del proprio lavoro e della propria libera impresa, lontano sia dal governo americano che dal comunismo sovietico. 

Andrew Ryan, il magnate suo fondatore, definisce "parassiti" tutti coloro che "chiedono di ricevere qualcosa dagli altri": i poveri e i malati, qualunque stato o religione limiti le persone dal godere del frutto dei propri sforzi o che pensi di dirigerlo con costrizioni esterne alla loro propria ragione; addirittura, arriva a definire l'altruismo come la principale delle menzogne umane, equiparando in questo senso i bolscevichi, il New Deal roosveltiano, qualunque religione e qualunque apparato statale a forme di parassitismo che ostacolano l'individuo, che fanno sì che "il grande sia limitato dal piccolo". 

Questo dà al nostro villain un impianto filosofico e politico ben preciso: infatti, è un'incarnazione dell'oggettivismo individualista di Ayn Rand, e di conseguenza di una grossa parte del partito repubblicano statunitense[1]. Nonché, di almeno una incarnazione dell'Ordine dei Sith negli anni della Vecchia Repubblica[2], ma tralasciamo. Le iconografie in Rapture riprendono l'immagine iconica di La rivolta di Atlante, un personaggio si chiama "Atlas", il concetto della Grande Catena sembra essere un riferimento diretto alla "Mano Invisibile" di Adam Smith[3], insomma i parallelismi sono relativamente espliciti.

Rapture, però, cade presto a pezzi, schiacciata in una sorta di guerra civile fra due forze: da un lato, Frank Fontaine, un criminale che porta alla città prodotti e servizi largamente richiesti fino a raggiungere un potere e un'influenza in grado di rivaleggiare quelli di Ryan; dall'altro, Andrew Ryan stesso, che considerando Rapture la sua creazione e l'opera del suo genio arriva a voler proteggere la sua visione di essa a tutti i costi, anche a costo di rompere i propri stessi principi. 

Rapture sarebbe sopravvissuta e prosperata, forse, se Ryan avesse compiuto un ragionamento contrario all'oggettivismo, che mettesse il suo interesse personale in secondo piano rispetto all'interesse sociale: ovvero, un ragionamento altruista.

Sì, perché Ryan, in barba ai principi libertariani, chiude la città a qualunque contatto commerciale con l'esterno. Questo dà spazio a un personaggio senza scrupoli come Fontaine per arricchirsi a dismisura tramite il contrabbando di beni richiesti, permettendogli poi di “espandersi” in settori legali; alcuni “moralmente grigi”, come i plasmidi, ma altri invece apparentemente lodevoli, come orfanotrofi e servizi per i poveri. 

Se si escludono i suoi modi violenti, Fontaine è una perfetta rappresentazione del sogno di Ryan: senza alcun freno morale e con le proprie sole forze, compresa la lucidità di sfruttare biecamente le falle del sistema, si arricchisce offrendo ai compratori un prodotto che desiderano, guadagnandone così la stima. Eppure, Ryan, dopo un primo periodo in cui ne “difende” l’ascesa («Se non ti va quello che sta facendo Fontaine, beh, ti consiglio di trovare un modo di offrire un prodotto migliore»), decide di ostacolarlo con la forza dello Stato quando diventa abbastanza potente da essere una minaccia per lui. 

A parte tutto, è solo a me che sparare così tanti proiettili in una città sul fondo dell'oceano sembra poco saggio?

Nel frattempo, in Rapture quei pochi geni che riuscivano ad emergere guadagnavano un'influenza e un potere quasi feudali, mentre la maggior parte della popolazione viveva nel dolore e nella frustrazione

Per citare un audiolog, "vengono a Rapture convinti di diventare tutti capitani d'industria, ma si dimenticano che qualcuno deve ben pulire i cessi". Un'idea, questa, che costituisce la più ovvia falla di qualunque visione del mondo di stampo radicalmente liberista o anarco-capitalista: si possono convincere le persone che con l'intelletto e l'industria tutti possono diventare grandi e ricchi, ma la realtà è che senza operatori fognari, braccianti agricoli, e muratori, nessuna società può esistere. Anche in un mondo di 7 miliardi di Steve Jobs e Bill Gates, qualcuno di questi dovrà raccogliere i pomodori e pulire le strade.

These sad saps. They come to Rapture thinking they're gonna be captains of industry, but they all forget that somebody's gotta scrub the toilets. What an angle they gave me... I hand these mugs a cot and a bowl of soup, and they give me their lives.

Quindi, il problema che sembra emergerne è triplice:
1) Un'ideale di assoluto libero mercato e puro individualismo, senza regolamenti statali, welfare, o "reti di sicurezza sociali", inevitabilmente destina ampie fette della popolazione a una vita di insoddisfazione, infelicità, e povertà. Il tutto mentre i pochi che "ce l'hanno fatta", in virtù della loro importanza e influenza, sono liberi di agire anche nei modi più orribili, senza essere ostacolati né dalla morale né dallo Stato (in Rapture: il chirurgo estetico, l’artista folle, la ricercatrice tedesca, la vineria che annacqua il vino ecc.).
Questo crea inevitabilmente conflitti di classe, ergo un substrato di malcontento pronto a esplodere; oppure o a venire manipolato da chiunque, come Fontaine, offra loro una via d'uscita.

2) Fontaine agisce, indubbiamente, nell'illegalità e nella violenza, all’inizio, ma successivamente dà alla popolazione quello di cui ha bisogno: non solo beni materiali, ma cibo per gli affamati e i malati mentali, un tetto agli orfani, e ovviamente l'ADAM, una sostanza pericolosa che però prometteva di rendere più forti, più intelligenti, migliori del prossimo, di far vincere la gara verso il sogno americano rapturiano", con solo il piccolo effetto collaterale di far impazzire chi, magari disperato per l'impossibilità di migliorare la propria condizione, ne fa uso smodato. (i paragoni con la cocaina o con altre droghe eccitanti si sprecano) Creandosi, così, un ampio bacino da manipolare per prodursi un esercito.
Insomma: la Grande Catena ha creato sia una classe di disperati sia un Fontaine pronto ad approfittarne. In altre parole: ha piantato il seme della propria distruzione. Ci sarebbero stati molti modi di evitarlo: vietare l'ADAM in quanto pericoloso, un maggiore impegno di polizia e giustizia per fermare Fontaine, ecc. Ma questo avrebbe significato rompere i precetti del capitalismo laissez-faire.

3) Ryan agisce in maniera contraria all'aspetto economico dell'oggettivismo, ma in maniera perfettamente in linea con i suoi aspetti individualisti: nascondendo Rapture al mondo e agendo per contrastare Fontaine e nazionalizzare le sue aziende, agisce semplicemente nel proprio interesse, per difendere la propria posizione e il proprio potere. Del resto, è al comando perché se l'è meritato, ha tutto il diritto di pensare a sé stesso con i mezzi che è riuscito a procurarsi con le proprie forze, no? Sei forse un parassita che vuole impedirgli di godere del frutto del suo lavoro? 

Rapture sarebbe sopravvissuta
e prosperata, forse, se Ryan avesse compiuto un ragionamento contrario all'oggettivismo, che mettesse il suo interesse personale in secondo piano rispetto all'interesse sociale: ovvero, un ragionamento altruista.


Anche le scelte morali sembrano essere incentrate intorno a questa “dualità” fra altruismo e individualismo: uccido le Sorelline, per badare ai miei interessi e guadagnare un grosso vantaggio nella mia corsa contro i miei nemici (come spinge a fare Fontaine, non a caso), o le salvo, perché è giusto farlo anche se mi danneggia nel breve termine? Oppure le ignoro, lasciandole nella loro miseria, per non correre rischi e/o per non dare inizio a violenza non necessaria contro i Big Daddy (e qui si potrebbe tracciare un parallelo con il concetto di NAP o "Non-Aggression Principle" centrale nella filosofia anarco-capitalista)?

Tutto questo mi fa pensare che l'aspetto narrativo di BioShock sia, in gran parte, una critica a questo modello sociale ed etico; o in quanto fondamentalmente fallato per via dell’insostenibilità di un individualismo così estremo (senza salvaguardie etiche e istituzionali contro di esso, cosa impedisce a colossi come Fontaine e Ryan di “sconfinare”, di “truccare le carte” in proprio favore?), oppure in quanto utopistico e irrealizzabile per via della natura corruttibile dell'uomo.


[1] L’idea per la quale un malato non in grado di pagarsi le cure che chiede di, tipo, non morire sarebbe un “parassita che avrebbe dovuto lavorare di più e pensarci prima” è qualcosa che ho davvero sentito espresso da politici come Ted Cruz e Paul Ryan. A una persona razionale fa un po’ ridere e un po’ orrore, ma c’è gente che lo sostiene e viene pure votata. Da persone presumibilmente alfabetizzate, peraltro!
[2] Il che è divertente, perché la prima volta che ho letto i principi dell’anarco-capitalismo e dell’oggettivismo, me li sono immaginati esattamente così o così.
[3] Concetto, peraltro, mistico e irrazionale, quindi teoricamente dovrebbe essere rifiutato da oggettivisti e da personaggi come Ryan.