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20 giu 2016

[Commenti] Babel, No Man's Land, Un film parlato, Viaggio a Kandahar

Nel corso della mia carriera universitaria, ho dovuto sostenere nel 2014 un esame di Storia e Critica del Cinema. Perchè un esame del genere sia obbligatorio in un corso di studi di lingue orientali è un altro discorso, ma le vie di Unito sono infinite. Per quest'esame, ho guardato una serie di film in qualche modo incentrati sul tema dell'alterità, dell'incontro con il diverso, ecc. Alcuni mi sono piaciuti, altri meno, ma ripescando i commenti che avevo scritto a riguardo all'epoca ho pensato che potesse valere la pena rielaborarne e condividerne qualcuno qui, per parlare un po' di questi film e, soprattutto, dei temi che trattano. 

All'epoca avevo un modo molto più casuale e meno pretenzioso attento di scrivere queste cose, quindi classifico questo come un post di commenti più che di vere e proprie recensioni. 

Babel
(2006)

Film di Alejandro Inarritu che narra l'intrecciarsi e incrociarsi di quattro storie molto diverse e apparentemente lontane: quella di una famiglia marocchina di allevatori di capre (in Marocco, appunto), i cui due figli (chiaramente deficienti) per provare un fucile nuovo sparano su un pullman di passaggio; quella di due coniugi americani (Brad Pitt e Cate Blanchett) la cui vacanza in Marocco si trasforma in tragedia quando lei viene colpita da un proiettile vagante; quella dell'amorevole domestica messicana della coppia di cui sopra, che si troverà costretta a portarsi dietro i due bambini a lei affidati (ciao Elle Fanning, sorella di Dakota Fanning) al matrimonio del figlio; una ragazza giapponese sordomuta (interpretata da una bravissima Rinko Kikuchi che passa la maggior parte del tempo senza mutande), traumatizzata dal recente suicidio della madre e sessualmente frustrata.

La regia è molto intelligente (alcune scene con la ragazza sordomuta in particolare sono spettacolari), la colonna sonora è varia e adatta ai vari contesti "etnici", le quattro storie si intervallano in modo anacronico andando piano piano a creare il quadro completo. Ognuna delle storie è molto intensa emotivamente, anche nel presentare efficacemente personaggi molto diversi e molto umani nei loro conflitti personali e nel loro modo di affrontare la difficile situazione in cui si trovano. Una nota di merito, in questo senso, alla recitazione.

Il tema forte, credo, ha a che fare con il concetto di globalizzazione, e in questo senso è molto efficace il modo in cui persone così lontane fra loro per nazionalità ed estrazione sociale possano così imprevedibilmente eppure così profondamente influenzarsi a vicenda per ragioni tutto sommato casuali. Ma importante è anche il tema della difficoltà di comunicazione, che viene espresso in molte sfaccettature diverse: non solo, come ci si può immaginare, la difficoltà della ragazza sordomuta di inserirsi e comunicare con i suoi coetanei, o le difficoltà dei coniugi nel farsi capire trovandosi isolati e feriti in una terra straniera, o l'impatto estraniante dei figli di questa ricca coppia americana che si ritrovano senza capire bene il perché in mezzo a un matrimonio di contadini messicani; ma anche le difficoltà di comunicazione e comprensione fra persone che dovrebbero essere vicine, ovvero i due coniugi, i due ragazzi marocchini col proprio padre, o il ricco uomo d'affari giapponese con una figlia il cui dolore non riesce a notare. I paralleli che vengono tracciati fra tutte queste situazioni sembrano voler comunicare il concetto che nonostante questa interconnessione profonda fra esseri umani così lontani, comunicare e comprendersi appieno rimane qualcosa di profondamente difficile anche a distanze molto più ridotte. Interessante anche l'aspetto per il quale i personaggi provenienti da nazioni ricche e classi elevate vengono lanciate a lieto fine, che invece è precluso anche tristemente agli allevatori e alla tata messicana.



No Man's Land
(Ničija zemlja, 2001)

Un film di produzione multinazionale ambientato durante la Guerra civile in Bosnia ed Erzegovina, di cui devo tristemente ammettere di conoscere solo i contorni basilari. Starring: un tizio che assomiglia a Paolo Villaggio, un tizio che assomiglia a Vasco Rossi, un tizio che assomiglia a Mark Knopfler (e che ha una pronuncia britannica di una perfezione veramente deliziosa), un tizio che assomiglia a Timo Tolkki, e una tizia che assomiglia in modo inquietante alla mia insegnante di storia del cinema. E i protagonisti.

Due soldati, uno bosniaco e uno serbo, si ritrovano feriti e bloccati nella terra di nessuno fra le due rispettive trincee, con un terzo soldato (bosniaco) bloccato insieme a loro su una mina. Idea di base già vista in Niente di nuovo sul fronte occidentale, ma ovviamente non è questo il punto. Viene sviluppato molto bene il rapporto fra i due, in modo tutt'altro che scontato: il serbo e il bosniaco parlano la stessa lingua, si alternano nel minacciarsi a vicenda, e si ritrovano in un moto armonico fra il rinfacciarsi le reciproche atrocità, il condividere quello che li unisce (addirittura, i due scoprono di avere una conoscenza comune), e il ritornare a bomba nella spirale d'odio autoalimentato che, tragicamente, mina qualunque possibilità di una vera comprensione fra i due. E viene sviluppata ancora meglio la reazione INTORNO alla situazione, di ONU e stampa. E l'emozione prevalente, in me, è la rabbia. Rabbia per la falsità, la burocrazia, la codardia e il finto garantismo che hanno bloccato l'ONU in un imbarazzante immobilismo durante quegli anni. Rabbia per l'ingiustificabile odio razziale fra due etnie essenzialmente identiche per cultura, storia, lingua, esperienze, che si danno a "pulizie etniche" incrociate a causa di una ricaduta post-comunista di un patetico e datato sentimento nazionalista; il tutto mentre un'ONU creata apposta per impedire questi genocidi se ne sta lì a guardare, e a pensare che quattro medicinali e un tocco di pane bastino se non a risolvere la situazione quantomeno a far bella figura con la stampa.



Un film parlato
(Um filme falado, 2003)
Trattasi di un film del regista portoghese Manoel de Oliveira di aspirazioni chiaramente universali e multinazionali. In questo film si parla portoghese, francese, italiano, inglese e greco, e, anche se il film in sé è bruttino, noiosetto, e pure recitato e diretto malissimo, scusatemi se a un linguista come me basta questo fatto a far salire l'interesse. Peraltro sono soddisfatto perché il mio orecchio per il francese non è arrugginito come temevo.

Il film è la storia di una professoressa di storia dell'Università di Lisbona che viaggia in crociera con la figlia per raggiungere il marito, in India, facendo tappa durante il viaggio a Marsiglia, Napoli, Atene, Istambul e Cairo, visitando alcuni luoghi storicamente e culturalmente importanti di queste città mediterranee. Lei la definirei il tipo di persona che nessuno vorrebbe avere alle feste, visto che sa sciorinare qualsiasi mito o storia o leggenda su ogni cosa ma la condisce sempre di commenti come "Questo mito non è vero, è una storia inventata per spiegare certi fenomeni, no non possiamo vederlo perché è una leggenda e non esiste", cacchio signora se continua così quella bambina le verrà su cinica, acida e noiosa come un tipo che conosco. Peraltro, anche 'sta qua sembra la mia prof, e a 'sto punto è chiaro che i suoi libri mi stanno perseguitando. La bambina peraltro fa DECISAMENTE troppe domande, per una che va a scuola e dovrebbe già sapere cos'è il Medioevo e cos'è una leggenda; soprattutto considerando che l'attrice non è che sia proprio da premio Oscar e glie lo si legge in faccia che in realtà non le frega assolutamente niente di quello di cui sta chiedendo. Comunque, il film si sviluppa come una serie di visite a monumenti, rovine, architetture, e di conversazioni in merito, altre grandi fonte di interesse per un umanista come me. Certo, uno potrebbe chiedersi a questo punto perché il regista abbia girato un film invece di un documentario, ma tralasciamo.

Nella seconda parte a prendere il centro della scena è una conversazione fra il galante capitano della nave, interpretato dall'uomo più affascinante del mondo (John Malkovich), una donna d'affari francese francamente insopportabile, una modella italiana, e una cantante greca; converszione in cui si dicono... robe. Raccontano di sé, della loro vita, poi toccano argomenti politico-civili con una banalità da circolo del cucito delle casalinghe di Voghera ("Le donne dovrebbero governare il mondo", "fra Oriente e Occidente mancano valori di convergenza"), poi parlano di come la Grecia sia stata la culla della civiltà occidentale nonostante oggi il greco sia così poco parlato. Divertente, peraltro, il fatto che ognuno dei quattro parla nella propria lingua eppure tutti si capiscono (il che significa che chiaramente questo film è ambientato nell'universo di Tekken). Successivamente, la professoressa portoghese si aggiunge alla conversazione, che continua in inglese, sempre con un susseguirsi di lunghissime inquadrature fisse. Finché alla fine...




Sì, tante parolacce, perché mi sento preso in giro. Che cazzo era 'sto film. Gente che parla di cose a caso in varie lingue e un finale talmente a caso da rovinare quel buono che c'era nel resto. Ma non si poteva chiudere così, sul nulla, come una specie di film slice-of-life? Avrebbe almeno avuto un suo fascino e un suo senso, come film di conversazione e basta. Almeno un interessante esperimento che avrebbe fatto risaltare quelle qualità che ha, cioè l'aspetto culturale e intellettuale. Ma quel finale? Che si sviluppa in due-tre minuti scarsi dopo un'ora e mezza di nulla? Io boh, mi sento preso per il culo. E adesso vorreste pure incollarci sopra un significato politico-sociale-estetico, magari, vero? Magari volete dirmi che questa è un'opera profonda e rivoluzionaria e originale che dice molto sull'incontro con l'altro e la globalizzazione e l'estetica cinematografica e la distanza del passato e la supercazzola prematurata? BULLSHIT, you pretentious wankers.
Forse posso scorgere indizi di temi che si ripetono nelle conversazioni, e di idee che il regista vuole trasmettere, ma il film in sé è solo un insieme di omelie pretenziose che, ammesso e non concesso abbiano davvero un senso profondo, non lo sanno trasmettere.

Viaggio a Kandahar 
(Safar-e Qandahār, 2001)

Film del regista iraniano Mohsen Makhmalbaf, ambientato nell'Afghanistan talebano. Sempre della serie "ma perché non fai un documentario se il tuo scopo è fare un documentario", è il tipico mattone indigeribile, lentissimo, recitato malissimo, con una storia appena accennata e inconclusa che serve solo a mostrare l'oppressione del regime talebano, che solo un'insegnante di critica del cinema potrebbe farti vedere.

Trovo due cose particolarmente divertenti. La prima: già guardandolo avevo considerato la critica alla dittatura religiosa talebana molto superficiale, fatto più di una serie di immagini scioccanti messe in fila senza troppo contesto e senza andare oltre l'aspetto quasi folkloristico. Ha l'indubbio merito di aver mostrato cose all'epoca non note, ma anche lì, a questo punto fai un documentario, se no io spettatore non saprò mai quanto quello che mi racconti è vero e quanto è un'esagerazione artistica. Mi ricordo di aver pensato "Wow, se uno guarda 'sto film, tempo un'ora e mezza e diventa leghista!"; infatti, una breve ricerca mi ha rivelato che nel 2001 non se l'è cagato nessuno, ma dopo l'11 settembre è stato mostrato a destra e a manca usandolo come propaganda anti-afghana per giustificare l'intervento militare statunitense (che, la storia ci racconta, è riuscito a peggiorare ulteriormente le cose).

La seconda è che il film stesso si premura di far notare come ogni cinque minuti un civile perda la vita su una mina a caso, e mostra una serie di orrori quotidiani che piagano la popolazione sotto il regime talebano: persone con le gambe mutilate, bambini che spogliano cadaveri per trovare qualche soldo per mangiare, bambini che vengono obbligati a imparare il Corano a memoria in una lingua che nemmeno conoscono, l'arabo, e immediatamente dopo vengono addestrati a sparare con un AK-47, donne costrette a cancellare la loro individualità e a cui è preclusa l'educazione scolastica, dottori che interagiscono con le proprie pazienti solo guardandole attraverso un buco in un telo, contadini che si affannano a comprare arti artificiali in previsione di un'eventuale brutto incontro con una mina... eppure si premura alla stessa maniera di evidenziare che in tutto questo la cosa più grave e terribile è il fatto che le donne portino il burqa. Questo è il vero punto focale del film, delle reazioni della protagonista, e a quanto ricordo di molte delle reazioni al film. Ora, non dico che non sia vergognoso e osceno che una donna sia repressa nella propria libertà, individualità e sessualità al punto tale da essere ridotta a un drappo ambulante come nemmeno il protagonista di Journey, per carità, è ovvio che siamo di fronte a una barbarie che è tale persino a voler applicare alla lettera le regole coraniche, ma mettere una donna con il burqa in confronto col fatto che ogni cinque minuti quella stessa donna esplode su una mina sovietica di una guerra finita vent'anni fa, o crepa di malaria perché l'acqua dei pozzi è contaminata, ecco, credo che dovrebbe farti rivedere un attimo le priorità della tua denuncia. Giusto un pochino.

A parte queste considerazioni, è un film che sa trasmettere qualcosa: sia lo sbigottimento di fronte all'orrore del regime talebano, sia la rabbia di fronte all'indifferenza dell'Occidente per una situazione così estrema (qui ben rappresentata con l'unica scena a mio avviso davvero valida del film, quella in cui un elicottero lancia col paracadute gli arti artificiali in un campo vicino a una stazione della Croce Rossa, e i mutilati disperati si affannano, correndo sulle stampelle, per accaparrarseli). Diciamo però che poteva essere fatto molto meglio, c'erano modi più efficaci di mostrare queste situazioni senza sembrare caricaturali. Ad esempio, creando una storia e una protagonista effettivamente degne di questo nome in modo da farci immedesimare meglio nel mondo che ci viene raccontato, o andando a parlare un po' meglio della storia del Paese e del regime religioso che lo governa.

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