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19 mar 2018

[Recensione] Papers, Please


Può un gioco basato interamente su un lavoro noioso, ripetitivo e ingrato essere non solo divertente, ma anche una delle cose più uniche, immersive, geniali e immancabili degli ultimi anni?

Ambientato nella fittizia (e distopica) Arstotzka, un Paese di stampo sovietico-orwelliano, il giocatore prende i panni di un comune cittadino che viene scelto per essere ispettore di frontiera al confine con Greistlin Est. Il suo compito è molto semplice: esaminare i documenti di una lunghissima fila di entranti, verificare che siano in regola, senza falsificazioni o incongruenze, e apporre il timbro per negare o approvare il loro accesso al Paese. Insomma, il sogno erotico di un leghisNO! Niente battute politiche fino a maggio, ho detto!

A un livello superficiale, c'è il semplice aspetto di sfida. Man mano vengono aggiunti più e più livelli di burocrazia, le regole di accesso si complicano in base agli eventi della storia, si dovranno gestire attentati, si potranno eseguire perquisizioni o ordinare arresti di persone sospette. E anche quando il poveraccio davanti a voi vi presenterà quattro o cinque documenti diversi da esaminare, basterà una cifra sbagliata sotto "numero di passaporto", una sola volta, e si dovrà rifiutare l'entrante, o mandarlo a fare due chiacchiere con i signori gentili coi fucili in quell'edificio in cui vedi la gente entrare ma non la vedi uscire tanto spesso (cit. Yahtzee).


A un livello profondo, però, c'è molto di più. C'è un continuo mettere il giocatore di fronte a scelte morali difficilissime: dal suo piccolo, insignificante posto di ispettore di frontiera, il protagonista ha il potere di influenzare decine, centinaia di vite, è un minuscolo ma fondamentale tassello nelle storie che incrocia tangenzialmente ogni giorno. Ogni entrante rifiutato per un errore nelle carte è un disperato che non troverà asilo politico, è un lavoratore che perderà il posto, è una mamma che non rivedrà il figlio, una moglie che non potrà riunirsi al marito, un ambasciatore che provocherà un incidente diplomatico... ma ogni ammesso per errore potrebbe essere un terrorista che ucciderà delle guardie innocenti, o uno spacciatore, o un criminale ricercato in fuga dalla giustizia, un trafficante di prostitute. E quando questo spacciatore, questo terrorista, questo trafficante di prostitute, invece, ha i documenti perfettamente in regola?

Ma non finisce qui: il protagonista viene pagato in base a quanti entranti smista correttamente. E con un affitto da pagare, un gelido inverno da affrontare, e quattro bocche in famiglia da sfamare, i 5$ che si perdono per un singolo errore (o per un singolo gesto di filantropia!) possono fare la differenza fra riuscire e non riuscire a comprare le medicine per il figlio malato.

Vi sono alcuni eventi scriptati che costituiscono le pietre miliari di questo aspetto: momenti in cui si dovrà scegliere se rompere le regole per uno scopo più nobile (riunire una coppia, aiutare un gruppo rivoluzionario, fermare un assassino, aiutare un lavoratore...) a spese della propria famiglia, o rispettarle pedissequamente per la propria sopravvivenza; oppure, al contrario, momenti in cui si dovrà scegliere se romperle per il proprio beneficio (tangenti, favoritismi ordinati dal capo, preparativi di fuga...), o rispettarle da buon cittadino anche quando significa andare contro i propri interessi.

Man mano che i bisogni della famiglia crescono, man mano che il lavoro si fa più complesso eppure più frenetico e stancante, diventa sempre più difficile essere una brava persona. Si viene progressivamente alienati e si perde la capacità di empatizzare con le decine di facce che si vedono ogni giorno, perché sì, questo sul passaporto è chiaramente un errore di stampa, ma quel bonus sullo stipendio in base a quante persone faccio arrestare mi fa una gola terribile visto che ho la bolletta del riscaldamento. 


AIUTO
Ogni aspetto della direzione artistica rinforza questa alienazione: i colori smorti e innaturali, le poche musiche marziali e cupe, i dialoghi scritti con uno stile secco, sintetico ed inespressivo (nonché a tratti quasi sgrammaticato, come se venissero pronunciati con un accento est-europeo), le voci sostituite da una manciata di effetti sonori sintetici che sembrano vagamente voci umane ma che si percepiscono solo come un farfugliare generico. Non so se queste caratteristiche siano dovute a una scelta precisa da parte dello sviluppatore, Lucas Pope, o alla semplice mancanza di fondi, ma fatto sta che funzionano benissimo.

Papers, Please è un gioco geniale e straordinariamente immersivo, da giocare assolutamente, che vi sottoporrà a scelte continue e difficili, e non solo se, come me, vorrete sbloccare ognuno dei 20 finali (di cui molti sono praticamente dei "game over" molto specifici, però...). Ma soprattutto, un'opera che pur nella sua semplicità tecnica si può ergere fra gli esempi principe del videogioco come forma d'arte complessa e significativa, e che pur a ormai quasi cinque anni dall'uscita ha ancora molto da dire. 

Anzi, forse ha ancora più da dire oggi, in un'epoca in cui l'immigrazione è percepita da così tante persone come un problema serio, e in cui quindi non si deve sottovalutare l'importanza di un'opera che ci permette di percepire empaticamente e "in prima persona", prima ancora che intellettualmente, tanto le tribolazioni di chi emigra quanto di chi quel flusso di persone lo deve controllare; tanto la difficoltà di sviluppare e applicare regole che siano giuste (umanamente), chiare, accessibili, efficaci, quanto la necessità di impegnarsi per trovarle, quelle regole, e i rischi che si corrono se vengono aggirate, mal applicate, o semplicemente mal pensate. Insomma, che aiuta un po' a capire come il mondo non sia in bianco e nero. Gloria ad Arstotska.


E niente, non ce la faccio proprio a non parlare di politica. Ho bisogno di aiuto.

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