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16 ago 2016

[Recensione] Kobane Calling


Devo ammettere di non essere particolarmente un seguace di Zerocalcare. Non perché non mi piaccia, anzi, ho sempre apprezzato le strisce che ho letto sul suo blog, il suo impegno politico-sociale (per il quale è stato anche indegnamente linciato dalla solita manica di analfabeti che popola l'Internet), e la devastante precisione con cui descrive i modi cogitandi di molta parte della nostra generazione. Semplicemente, non mi è mai capitato di leggerne le opere principali, e sono stato restio a cominciare per via del mio… ehm… problema con il dialetto romano. Oh, ragazzi, so che non dovrei, so che è brutto da parte mia, me ne rendo conto, giuro, ma non ce la faccio, la parlata romanesca mi farebbe suonare irritanti anche Papa Francesco e Emanuela Pacotto. Diciamo che sono un attivista contro il maltrattamento delle occlusive sorde intervocaliche, dishamo, sgusade, shè, aj gabido? Quest'opera mi ha attirato perché è qualcosa di completamente diverso rispetto all'immagine che mi ero fatto di Zerocalcare: giornalismo di guerra a fumetti? Racconto della realtà direttamente vissuta sul fronte curdo, fra l'utopia socialista ed egalitaria dei guerriglieri, le ambiguità autoritarie del governo turco, e la guerra con l'ISIS? Di un fumettista italiano noto per disegnare la sua coscienza come un armadillo e sua madre come una gallina? Il tutto con un titolo che richiama uno dei migliori album dei The Clash? Dovevo averlo.

Ed è stato uno dei migliori acquisti che abbia fatto quest'anno. Kobane Calling è un simil-reportage dei due viaggi fatti da Zerocalcare nel Rojava, il territorio fra Turchia, Siria e Iraq controllato dai guerriglieri curdi, il primo nei mesi dell'assedio di Kobane e il secondo in quelli immediatamente successivi la sua eroica riconquista da parte di un gruppo di donne e uomini comuni che si sono rifiutati di lasciarla alle mani dell'ISIS. Loro, musulmani, isolati dal mondo, senza aiuti, considerati terroristi dal governo turco, con alle spalle decenni di persecuzioni, sono stati il simbolo della resistenza all'avanzata di un nemico che, all'epoca, sembrava incomprensibile e inarrestabile, e sono tutt'ora il simbolo di un'utopia di convivenza difficile, ma che in mano loro sembra dannatamente possibile; non perché abbiano creato un paradiso terrestre a cui tutti dovremmo ispirarci, ma perché hanno «un metodo, una tensione a migliorare, che poi ognuno dovrebbe declinare dentro sé stesso e nel suo contesto» (per citare l'opera stessa). E li racconta con quel misto, tipico del suo stile, di umorismo e serietà, satira ed emozione, riuscendo tanto spesso a far ridere come a scioccare, a sorprendere, raccontando aspetti della questione ISIS e della questione turco-curda che a noi per qualche motivo non arrivano attraverso quello che dovrebbe essere il giornalismo. Lo fa credendoci, e talvolta lasciandosi andare a confronti con l'Italia o ad appelli ideologici ed emotivi, ma con onestà intellettuale, mettendo sempre in chiaro che si tratta solo della sua, personale esperienza, e di quello che a lui è stato riferito.

Zerocalcare racconta gli eventi dei due viaggi ponendo il mondo con cui viene a contatto
in continuo contrasto con quello della sua quotidianità, di Rebibbia, dell'Italia, in un confronto non sempre serio ma non sempre lusinghiero. La piccola sfera del campanilismo di quartiere confrontata a quella delle difficoltà di un territorio in guerra; la civilizzata ipocrisia di una nazione ricca e stabile, fra notiziari viscidi e politicanti bavosi, con l'utopico idealismo di una nazione che cerca di nascere fra fra vita militare e aspirazioni pacifiche. L'autore si lascia spesso andare a riflessioni di natura politico-idealistica, o a più semplici momenti di contemplazione in cui si rende conto che, cazzo, tutto quello che ha sentito al telegiornale fino adesso è ora proprio lì, davanti ai suoi occhi, ed è così diverso da come l'aveva capito. A mio avviso i momenti più forti di quest'opera sono proprio quelli di più crudo verismo, quelli in cui un fumettista che si vanta di far fatica a pensare il mondo oltre il suo quartiere si dimostra un giornalista migliore di certi emuli di Oriana Fallaci. Quando dà interamente la parola a un esponente del PKK che racconta le persecuzioni subite dal governo turco; quando una ragazza racconta come, se tornasse in Turchia, sarebbe condannata a ventidue anni di galera per aver una volta, a sedici anni, partecipato a una manifestazione ambientalista; quando un guerrigliero curdo avverte di fare attenzione alle macerie, perché l'ISIS in fuga mette mine ovunque, e poi racconta come i soldati del califfato catturati neanche sapessero contro chi stavano combattendo; le difficoltà incontrate dal gruppo di italiani alla dogana turca o al confine fra Iraq e Rojava. Piccoli fattoidi che aiutano a farsi un'idea di quale sia la situazione nella polveriera mediorientale, al di là di quello che giunge a noi attraverso i resoconti e le generalizzazioni che ci fanno percepire quella zona come un tutt'uno indistinto e sabbioso.

In definitiva, si tratta indubbiamente di un'opera coraggiosa e matura la cui lettura consiglio indistintamente a chiunque. Il magistrale equilibrio fra momenti seri e momenti comici, pur nella serissima attualità dei temi trattati, rende Kobane Calling non solo un brillante esempio di come il fumetto sappia assumere con efficacia molti "ruoli" diversi, ma anche un'opera letterariamente interessantissima di uno scrittore tutt'altro che da sottovalutare.

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