Ho dedicato un po' del mio tempo alla lettura del Manifesto del partito comunista nella sua versione storica del 1848. Comunque la si pensi dal punto di vista
politico-ideologico, è innegabile che lo scritto
di Karl Marx e Friedrich Engel, due dei pensatori più arguti e completi
dell'Ottocento, sia una mirabile fotografia del suo tempo, un enorme
passo avanti nell'organizzazione razionale delle sinistre operaie, e un «capolavoro
di oratoria politica» (Umberto Eco) dallo stile
preciso, conciso, cristallino, ricco di immagini retoricamente
efficacissime quanto di chiarezza scientifica.
Nell'edizione in mio possesso, quella di ET
Saggi, è accompagnato da una postfazione di Bruno Bongiovanni, che
pur essendo scritta con uno stile inutilmente arzigogolato e pieno di latinismi[1],
negli ultimi capitoli presenta un' interessantissima disamina dei revisionismi
marxisti e dei comunismi (il plurale è d'obbligo) nati dalle ceneri del
"marxismo ortodosso" (corrente rinnegata dallo stesso Marx, e di
fatto morta nel 1922); ne citerò un passaggio in chiusura, ma per adesso
torniamo alla strabiliante modernità
del Manifesto.
Certo, la sua analisi
storica ed economica del capitalismo
industriale è tutt'altro che impeccabile: la descrizione dei processi storici come conflitti
dialettici fra classi e fra rapporti di produzione dei beni è limitata, e molte sono le predizioni sull'andamento "naturale" ed "inevitabile" del sistema borghese
che si sono rivelate errate, in
particolare per alcuni sviluppi politici e tecnologici
e per alcune controtendenze che avrebbero limitato o quantomeno ritardato quei
processi fotografati in questo testo. Similmente, alcune (non tutte) delle soluzioni proposte sono
fondamentalmente impraticabili, o quantomeno poco chiare.
Però, molte delle sue analisi sulla realtà del capitalismo industriale sono vere oggi come all'epoca, e molte altre sono state mitigate solo dopo decenni di lotte sindacali (basti pensare che nel 1848 si festeggiava il LIMITARE la giornata lavorativa a DIECI ORE, peraltro solo in Inghilterra, come una vittoria senza precedenti!). Quattro cose in particolare non aveva previsto:
Però, molte delle sue analisi sulla realtà del capitalismo industriale sono vere oggi come all'epoca, e molte altre sono state mitigate solo dopo decenni di lotte sindacali (basti pensare che nel 1848 si festeggiava il LIMITARE la giornata lavorativa a DIECI ORE, peraltro solo in Inghilterra, come una vittoria senza precedenti!). Quattro cose in particolare non aveva previsto:
1) L'invenzione dell'informatica, l'aumento delle
funzioni della pubblica amministrazione all'interno degli stati e
l'esplosione del terziario, che avrebbero: da un lato spostato il fulcro dell'economia lontano dalla semplice produzione di
beni concreti (e, nel caso dei mercati finanziari, lontano dalla realtà);
dall'altro, creato una serie di classi
intermedie fra il proletariato e i grandi capitalisti, classi relativamente
benestanti che sarebbero diventate maggioritarie, alterando la
rete di rapporti sociali e produttivi prevista da Marx..
2) Le progressive conquiste di sindacati e sinistre, che avrebbero migliorato notevolmente le condizioni e i diritti del lavoro
salariato, quindi creando un capitalismo superficialmente più umano. Certo, il rovescio della medaglia è
che questo ha rallentato l'unione solidale fra i proletari, alimentato le guerre fra poveri (autoctoni vs. immigrati, pubblico vs. privato, piccolo
imprenditore vs. dipendenti ecc.), spostato lo sfruttamento in stile ottocentesco
in altre nazioni (nelle fabbriche che producono iPhone fra
operai che tentano il suicidio, ad esempio), e quindi allungato di molto la
vita al sistema capitalistico.
3) La sopravvivenza
e anzi continua risorgenza di sentimenti
di nazionalismo nonostante la
globalizzazione dei mercati, degli scambi culturali, del sistema economico
e, con esso, della condizione di comune oppressione del proletariato. Tanto fra le due guerre mondiali quanto oggi, assistiamo
a continui rigurgiti di nazionalismo e isolazionismo. Marx legava
questi sentimenti all’insieme dei rapporti economici che regolano la società;
secondo me, invece, il nazionalismo ha
un’origine più profonda, più legata a un istinto primitivo, animalesco, di
distinguere un “noi” e un “gli altri”,
di categorizzare un insieme che si è in grado di capire empaticamente, e nel quale
inserirsi per sentirsi emotivamente protetti ed appartenenti a qualcosa di più grande di sé,
contro un insieme che invece non si riesce a capire e si percepisce in qualche modo come inferiore o
comunque “diverso”, se non addirittura “nemico”. Questa tendenza psicologica
primitiva, secondo me, giustifica tanto il nazionalismo quanto le innumerevoli
divisioni all’interno di qualsiasi gruppo umano, da donne vs. uomini a polentoni
vs. terroni a truzzi vs. metallari.
4) L'egemonia culturale che lo schema di valori del capitalismo si è conquistata, soprattutto grazie ai mass media di origine americana e a quella che Boudrillard definiva "iperrealtà", ergendosi a pensiero unico, a substrato talmente radicato da essere ormai considerato natura inestricabile delle cose invece che prodotto umano (e, quindi, storicamente determinato e modificabile).
4) L'egemonia culturale che lo schema di valori del capitalismo si è conquistata, soprattutto grazie ai mass media di origine americana e a quella che Boudrillard definiva "iperrealtà", ergendosi a pensiero unico, a substrato talmente radicato da essere ormai considerato natura inestricabile delle cose invece che prodotto umano (e, quindi, storicamente determinato e modificabile).
Del resto,
il primo, più feroce, e più efficace critico
del marxismo fu Marx stesso, che dedicò il resto della sua vita a uno
studio onnicomprensivo mirato a una continua revisione delle proprie teorie
storiche ed economiche. Questo Manifesto è ben lontano
dall'essere il culmine della teoria marxiana e ancora meno della teoria comunista, anzi, ne rappresenta solo un
punto. Eppure, rimane una lettura di una potenza e importanza difficilmente
quantificabili. Non solo perché si tratta di una sintesi senza pari fra retorica galvanizzante e analisi razionale,
ma semplicemente perché, nonostante i suoi limiti, è ancora moderno.
Anche nell'economia moderna e informatizzata, in cui parla addirittura di settore quaternario, industria e agricoltura rimangono le basi fondamentali della nostra esistenza (il megapresidente megagalattico della più grande compagnia alimentare del mondo non è niente senza l'immigrato sottopagato che gli raccoglie le arance, Steve Jobs non è nulla senza gli operai taiwanesi che gli saldano i circuiti), lo sfruttamento al ribasso di grandi masse di lavoratori è tutt'ora una realtà, così come la perdita e la dequalificazione di posti di lavoro a causa del progresso tecnologico (si stima che la robotica potrebbe completamente sostituire il 47% del lavoro negli Stati Uniti entro vent’anni, quasi un lavoro su due[2]); la concorrenza sfrenata, lo sfruttamento non regolato e le speculazioni "virtuali" generano una crisi economica dietro l'altra (si pensi a quella attuale[3]) e causano una continua e preoccupante riduzione delle risorse naturali, rafforzando l'idea di un sistema miope, dedito allo #yolo; l'interdipendenza economica fra le nazioni è più vera oggi che mai, e rende qualunque idea di isolazionismo, protezionismo, autarchia o "purezza" ancora più pateticamente anacronistica; la dinamica fra le classi, o meglio, la dialettica fra coloro che hanno ricchezza e potere e coloro che non ce l'hanno, è tuttora la spiegazione più adeguata e onnicomprensiva per affrontare molte tensioni sociali della società odierna, molto più di discorsi autoreferenziali di "patriarchia" o "white privilege".
Si può dire che molti dei processi previsti da Marx, pur coi rallentamenti e le controtendenze che gli hanno fatto rivedere costantemente le previsioni, pur con le guerre che sfogando le crisi hanno allungato di molto la vita al capitalismo, sono forse più veri oggi di quanto non lo fossero allora.
Anche nell'economia moderna e informatizzata, in cui parla addirittura di settore quaternario, industria e agricoltura rimangono le basi fondamentali della nostra esistenza (il megapresidente megagalattico della più grande compagnia alimentare del mondo non è niente senza l'immigrato sottopagato che gli raccoglie le arance, Steve Jobs non è nulla senza gli operai taiwanesi che gli saldano i circuiti), lo sfruttamento al ribasso di grandi masse di lavoratori è tutt'ora una realtà, così come la perdita e la dequalificazione di posti di lavoro a causa del progresso tecnologico (si stima che la robotica potrebbe completamente sostituire il 47% del lavoro negli Stati Uniti entro vent’anni, quasi un lavoro su due[2]); la concorrenza sfrenata, lo sfruttamento non regolato e le speculazioni "virtuali" generano una crisi economica dietro l'altra (si pensi a quella attuale[3]) e causano una continua e preoccupante riduzione delle risorse naturali, rafforzando l'idea di un sistema miope, dedito allo #yolo; l'interdipendenza economica fra le nazioni è più vera oggi che mai, e rende qualunque idea di isolazionismo, protezionismo, autarchia o "purezza" ancora più pateticamente anacronistica; la dinamica fra le classi, o meglio, la dialettica fra coloro che hanno ricchezza e potere e coloro che non ce l'hanno, è tuttora la spiegazione più adeguata e onnicomprensiva per affrontare molte tensioni sociali della società odierna, molto più di discorsi autoreferenziali di "patriarchia" o "white privilege".
Si può dire che molti dei processi previsti da Marx, pur coi rallentamenti e le controtendenze che gli hanno fatto rivedere costantemente le previsioni, pur con le guerre che sfogando le crisi hanno allungato di molto la vita al capitalismo, sono forse più veri oggi di quanto non lo fossero allora.
Ma ancora di più, forse, perché presenta
motivazioni e passi razionali a un sogno, un ideale utopico, come un anelito romantico: un ideale di uguaglianza universale nel quale la tecnologia e i mezzi di produzione siano sottratti agli
egoismi miopi di poche persone, e siano messi al servizio programmato a lungo termine del bene
comune, garantendo a ogni individuo un'esistenza dignitosa e, con essa, la possibilità
di realizzarsi nelle proprie aspirazioni e inclinazioni; senza il primitivo bisogno di prevalere sugli altri per trovare
un valore alla propria esistenza, senza infantili nazionalismi a
dividere esseri umani che, pur nelle loro spesso inconciliabili differenze,
sono uniti sotto l'unico giogo che pesa ugualmente su contadini e magnati, operai e
monarchi, bianchi e neri, uomini e donne, tutte le sessualità e le religioni e
le idee politiche: quello dell'inevitabile miseria della condizione umana,
dell'insopportabile inutilità di un'esistenza breve, piccola, eppure con un
potenziale collettivo infinito per l'automiglioramento.
Giorgio Gaber diceva: «Qualcuno era comunista perché pensava di poter essere vivo e
felice solo se lo erano anche gli altri.
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
Qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno
era come più di se stesso, era come due persone in una. Da una parte la
personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza
che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita.
Forse anche
allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare, come dei
gabbiani ipotetici.
E
ora? Anche ora ci si sente come in due: da una parte, l’uomo inserito che
attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana,
e dall’altra, il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai
il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo.»
Parole che proprio oggi, che ci troviamo fra l'incudine di sinistre fallimentari e il
martello di destre reazionarie, suonano care a chi, come
me, osa ancora appoggiarsi a quella
parola, oggi vista quasi come una bestemmia, insozzata irreparabilmente da totalitarismi prima e
da figure politiche squallide poi: marxismo. Parola che Marx stesso, "Kritik intrinsecamente
antiautoritario" (Bongiovanni), rinnegava ardentemente, ma che io voglio invece rivendicare,
sebbene con un significato leggermente diverso. Non, cioè, come uno dei
tanti dogmi da sposare acriticamente, ma come un
atteggiamento di pensiero teso al continuo miglioramento e alla continua revisione delle
proprie posizioni, e verso un'utopia comunista o, quantomeno,
socialista.
Vorrei chiudere
citando un passo dalla postfazione di Bongiovanni, che reputo particolarmente
efficace:
«[S]i può dire che, sul terreno storico, il “comunismo” al singolare non è esistito. Sono esistiti, anche escludendo le minoritarie eterodossie, i comunismi. Riconducibili a tre tipologie, ricche a loro volta di differenze al loro interno. L’unico in qualche modo non spurio […] e pur in continuazione prepotentemente autorevisionistico, è stato il comunismo-bolscevismo (URSS 1917-1991, Europa orientale 1945-89). A esso si possono aggiungere il comunismo-decolonizzazione (Cina, Corea, Cuba, Indocina, afrocomunismi), tappa interna, provvisoria e filosovietica del processo di liberazione nazionale e di indipendenza economica; e il comunismo-socialdemocrazia (PCI, PCF e altre esperienze minori)[…].
A differenza del “comunismo”, sia bolscevico che decolonizzatore, peraltro risoltosi rapidamente in sistema di potere autoreferenziale e con finalità pratiche di protomodernizzazione accelerata delle aree arretrate, la socialdemocrazia […] non si è proposta, neppure ideologicamente, la demolizione del capitalismo. La sua caratteristica, e la sua forza, ha consistito nella capcità di combinare la critica e l’accettazione del capitalismo. Si è cioè adattata […] alle trasformazioni capitalistiche, braccandole continuamente, e imponendo […] la prospettiva del bene pubblico […] all’anarchia congenita, e alla lunga autodistruttiva, del mercato. […]
Nella seconda metà degli anni ’80, […] la socialdemocrazia fu presa di sorpresa e scavalcata su quello che da sempre era stato il suo terreno d’elezione, ovverosia l’internazionalismo. Il capitalismo, infatti, […] approfittando del deficit di politica che ha contraddistinto il decennio della deregulation, si è sbarazzato […] della corporate citizenship che lo radicava in un territorio dato, ed è diventato compiutamente cosmopolitico, realizzando la sua vocazione da sempre più profonda. […] I lavoratori si sono a loro volta trovati a essere in concorrenza tra di loro su scala mondiale. La produzione, trasportata dalla dinamica inarrestabile dei flussi finanziari, si è dislocata […] alla ricerca di aree di recente industrializzazione in grado di fornire elevata efficienza, bassi salari e disponibilità di lavoro vivo scarsamente protetto.
[…] Mai la classe lavoratrice è stata tanto internazionale, mai il programma socialista, che si identifica con il controllo politico-sociale-democratico dell’uomo sul proprio agire economico e sul denaro, è stato tanto impotente, se non addirittura assente. L’economia […] si è svincolata dalla società […].
È sul terreno internazionale che si gioca in realtà la partita. L’internazionalismo radicale dell’economia può essere […] “socializzato”, vale a dire ricondotto nell’ambito della società da cui è sfuggito, solo da una politica radicalmente internazionale che accetti, e non subisca, la sfida dell’economia. Lo spettro della domanda di giustizia sociale e di convivenza razionale, lasciata libera e inespressa dalla tragedia dei totalitarismi comunisti […], si aggira ancora, in attesa di risposte, in un mondo insieme globalizzato e lacerato da colossali diseguaglianze.
Ed è proprio su questo terreno che il Manifesto, così irrimediabilmente antico e così sorprendentemente moderno, appare ancora attuale. […] solo nella fine del millenio il processo storico individuato da Marx parrebbe giunto a compimento. […] il Manifesto è più che mai indispensabile per comprendere criticamente il mondo che ci circonda e per riafferrare, obiettivo credo condiviso da tutti gli uomini di buona volontà, l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole….»
«[S]i può dire che, sul terreno storico, il “comunismo” al singolare non è esistito. Sono esistiti, anche escludendo le minoritarie eterodossie, i comunismi. Riconducibili a tre tipologie, ricche a loro volta di differenze al loro interno. L’unico in qualche modo non spurio […] e pur in continuazione prepotentemente autorevisionistico, è stato il comunismo-bolscevismo (URSS 1917-1991, Europa orientale 1945-89). A esso si possono aggiungere il comunismo-decolonizzazione (Cina, Corea, Cuba, Indocina, afrocomunismi), tappa interna, provvisoria e filosovietica del processo di liberazione nazionale e di indipendenza economica; e il comunismo-socialdemocrazia (PCI, PCF e altre esperienze minori)[…].
A differenza del “comunismo”, sia bolscevico che decolonizzatore, peraltro risoltosi rapidamente in sistema di potere autoreferenziale e con finalità pratiche di protomodernizzazione accelerata delle aree arretrate, la socialdemocrazia […] non si è proposta, neppure ideologicamente, la demolizione del capitalismo. La sua caratteristica, e la sua forza, ha consistito nella capcità di combinare la critica e l’accettazione del capitalismo. Si è cioè adattata […] alle trasformazioni capitalistiche, braccandole continuamente, e imponendo […] la prospettiva del bene pubblico […] all’anarchia congenita, e alla lunga autodistruttiva, del mercato. […]
Nella seconda metà degli anni ’80, […] la socialdemocrazia fu presa di sorpresa e scavalcata su quello che da sempre era stato il suo terreno d’elezione, ovverosia l’internazionalismo. Il capitalismo, infatti, […] approfittando del deficit di politica che ha contraddistinto il decennio della deregulation, si è sbarazzato […] della corporate citizenship che lo radicava in un territorio dato, ed è diventato compiutamente cosmopolitico, realizzando la sua vocazione da sempre più profonda. […] I lavoratori si sono a loro volta trovati a essere in concorrenza tra di loro su scala mondiale. La produzione, trasportata dalla dinamica inarrestabile dei flussi finanziari, si è dislocata […] alla ricerca di aree di recente industrializzazione in grado di fornire elevata efficienza, bassi salari e disponibilità di lavoro vivo scarsamente protetto.
[…] Mai la classe lavoratrice è stata tanto internazionale, mai il programma socialista, che si identifica con il controllo politico-sociale-democratico dell’uomo sul proprio agire economico e sul denaro, è stato tanto impotente, se non addirittura assente. L’economia […] si è svincolata dalla società […].
È sul terreno internazionale che si gioca in realtà la partita. L’internazionalismo radicale dell’economia può essere […] “socializzato”, vale a dire ricondotto nell’ambito della società da cui è sfuggito, solo da una politica radicalmente internazionale che accetti, e non subisca, la sfida dell’economia. Lo spettro della domanda di giustizia sociale e di convivenza razionale, lasciata libera e inespressa dalla tragedia dei totalitarismi comunisti […], si aggira ancora, in attesa di risposte, in un mondo insieme globalizzato e lacerato da colossali diseguaglianze.
Ed è proprio su questo terreno che il Manifesto, così irrimediabilmente antico e così sorprendentemente moderno, appare ancora attuale. […] solo nella fine del millenio il processo storico individuato da Marx parrebbe giunto a compimento. […] il Manifesto è più che mai indispensabile per comprendere criticamente il mondo che ci circonda e per riafferrare, obiettivo credo condiviso da tutti gli uomini di buona volontà, l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole….»
[1]
Chiunque
scriva espressioni come "cupio dissolvi antisociale" e
"fortezza claustrofilica" sta chiaramente compiendo atti
anti-allocutivi di onanismo linguistico, autoreferenzialmente slegati da
qualunque intentio planitatis… visto,
Brown Bon Jovi? Li so usare anch'io i paroloni, ma non significa che supercazzolare
sia una buona idea quando si vuole comunicare chiaramente!
[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Crisi_dei_subprime,
http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Finanza%20e%20Mercati/2010/04/crisi-credito-intro.shtml?uuid=b8a2cd0c-496e-11df-bd6e-7ceda8f3e82a
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