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18 dic 2016

[Rant] La politica dei meme

Nella'era della post-verità, in cui la complessità dei fatti è un ostacolo da evitare e ogni fazione può avere una comunità internettiana in grado di autoalimentarsi senza dover mai essere costretta ad affrontare se non le frange più rumorose della fazione opposta, il dialogo politico-etico-sociale si è largamente trasformato «into a basketball game where the teams are on different courts, and stand around a basket racking up meaningless points and throwing shit over the dividing wall» (Ben "Yahtzee" Croshaw, recensione di Hatred). Nasce una camera ad eco, nella quale le proprie argomentazioni vengono ripetute continuamente, in modo sempre più rumoroso e semplificato, finché non si trasformano in un caos autoreferenziale, un'estremizzazione quasi parodica che dà all'altro lato della barricata ancora più sicurezza di aver ragione, mentre le voci ragionevoli e maggioritarie si perdono nel rumore.

E così, vediamo questa meravigliosa capacità della rete: quella di trasformare qualunque argomento, compresi quelli più corretti e rispettabili, compresi quelli che nascono come più che esatte correzioni di semplificazioni o bufale, in un meme, uno slogan, un luogo comune che si estremizza rapidamente fino a diventare tanto odioso, superficiale, semplificatorio, e arrogante quanto quello che era nato per combattere.

Basterebbe prendere, come esempio, il recente dibattito sul referendum costituzionale in Italia, che sia a livello "social" che a livello politico-giornalistico si è ridotto a un patetico dialogo fra "voto no perché non ho capito la riforma e poi non voglio votare come Verdini e Alfano, Renzi a casa e Boschi puttana, con la riforma arriva il dittatore" e "voto sì perché bisognerà pur cambiare qualcosa, puoi mica sempre dire no, non voglio votare come Grillo/Salvini/D'Alema e gli altri gufi invidiosi che sanno solo criticare, grillini fascisti, con la riforma si manderanno a casa i politici e si risparmieranno millemila miliardi". Anzi, più che un dialogo, i capricci di due lattanti moccolosi che vomitano biscotti Plasmon pre-masticati. Ma ci sono degli esempi di minor peso, su scala più piccola, che considero ancora più significativi.

Dai, bambini, adesso basta, su, vi state rendendo ridicoli.

Per esempio. Il concetto di friendzone nasce come battuta, si evolve in un termine-ombrello sotto cui si sfogano migliaia di persone che hanno provato il dolore di una delusione amorosa, si rafforza in una generalizzazione contro le ragazze che sfruttano consciamente i sentimenti degli amici per avere regali e favori, e degenera nel dare della troia friendzonatrice a chiunque non la dia a comando. A quel punto, comprensibilmente e giustamente, arriva la reazione: nasce la ragionevole critica a quest'estremizzazione per la quale le donne dovrebbero comportarsi come distributori automatici che erogano vagina in cambio di favori gentili, si evolve come altrettanto ragionevole critica a quei ragazzi che fingono di comportarsi "da amici" e poi piangono friendzone appena vengono rifiutati dopo un merdosissimo approccio su Facebook, e presto degenera in "la friendzone non esiste, le donne devono fare quello che vogliono, chi parla di friendzone è uno schifoso maschilista che odia le donne", diventando a sua volta un'estremizzazione ridicola che ignora completamente i sentimenti di una parte (le persone comprensibilmente sofferenti per il comunissimo dolore dell'amore non corrisposto) a insindacabile favore dell'altra.

Una contrapposizione come questa si inserisce nel più ampio scontro fra femminismo (che nasce dal dare pari diritti alle donne e dal pretendere la fine di certe segregazioni di genere e arriva a parlare di "manspreading" e "stare-rape" chiedendo la censura di fumetti con personaggi con le tette grosse) e anti-femminismo (che parte da ragionevoli critiche agli eccessi del primo e, attraverso una enorme comunità auto-referenziale su YouTube, arriva a MGTOW, "women want to be put in their place, "quelli di sinistra sono ritardati", e Trump), ma esempi di questo tipo sono ovunque: la preoccupazione per il dato sull'analfabetismo funzionale in Italia diventa prima la giustissima rabbia contro i commentatori deliranti o razzisti, o contro chi condivide acriticamente le bufale, e poi degenera in quel patetico onanismo nazional-popolare del nozionismo fine a sé stesso che si esprime nel dare dell'analfabeta a tutti coloro che seguono un politico che confonde il 1950 col 1948 o il Cile con il Venezuela. La critica agli eccessi del veganesimo e dintorni (auguri di morte a destra e a manca, bufale tipo "la dieta naturale dell'uomo è fruttariana" o "la carne fa male" o "cuocere i cibi rovina le proprietà nutritive", dare cibo vegano ai gatti, eresie come la "carbonara vegana" ecc.) diventa sbandierare foto di bistecche con la stessa infantilità di un esibizionista con l'impermeabile, oppure dare dei ritardati a tutti i vegetariani. La sacrosanta critica alle semplificazioni populiste del tipo "presidente del consiglio non eletto dal popolo" diventa un comodo slogan da condividere con un click per insultare uno strawman di questo o quel partito, ignorando le (discutibili ma legittime) questioni di legittimità politica, slegate dall'aspetto legale-costituzionale, comunque presenti in quel tipo di argomento. Luigi Di Maio che accampa una scusa dubbia sul non aver capito la natura delle accuse alla Muraro diventa "dima e di ballista non sanno usare le mail lol grullini idioti": un meme, una fesseria da asilo nido.

Political discussion in a nutshell.

Non c'è discussione, c'è tifo calcistico. Non c'è dialogo, c'è il soscrivere un'intera categoria di persone ad argomenti-fantoccio da bruciare, per poi andare trionfanti davanti allo spechio a fare l'elicottero col belino. Non c'è l'argomentazione, c'è la condivisione di un'immagine con scritte in colori sgargianti. I social non sono la causa, ma danno il mezzo per vedere con la chiarezza del sole a cosa si riduce la dialettica quando ogni fazione si auto-estremizza in camere ad eco di self-righteousness: un remescio di insulti e slogan della stessa (infima) qualità retorica, che fanno sovrapporre e sfumare le parti in causa in un indistinguibile Pollock di idiozia e disonestà intellettuale. Complottisti e anti-complottisti i cui commenti sono altrettanto pieni di bile, arroganza, superficialità, stereotipi/meme ("posa il vino e torna al gombloddo delli scii kimici"), e fallacie ab auctoritate. Fanatici religiosi che "i gay sono la rovina della famiglia, il terremoto è una punizione divina per le unioni civili, le donne devono essere pure" e fanatici anti-religiosi che "lol amici immaginari, la chiesa c'ha i soldi, Easter deriva da Ishtar, bestemmie random" che si sfidano a chi riesce a essere più ignorante, incivile e pregiudiziale. Quelli che accusano un giornalista di essere renziano pagato dal PD, e quelli che accusano LO STESSO articolo dello STESSO giornalista di essere l'house organ del M5S pagato dalla Casaleggio. Giornalisti di opposte idee che titolano le proprie prime pagine con espressioni degne solo di un bambino delle elementari, magari pure con virgolettati palesemente inesatti. Potrei andare avanti per ore.

Dove voglio andare a parare con tutto questo? Da nessuna parte. Questo non vuole essere un "articolo" o un testo argomentativo, ma solo uno sfogo estemporaneo di una persona che passa troppo tempo a farsi del male leggendo le sezioni commenti su internet. Un mugugno fine a sé stesso. Un rant, appunto.

12 dic 2016

[Recensione] Broken Sword: Il segreto dei Templari




Fra tutti i mega-classici dell'era d'oro degli adventure game punta-e-clicca, Broken Sword (Broken Sword: The Shadow of the Templars) è uno di quelli tutt'ora più amati, spesso annoverato alla stessa stregua delle gloriose opere di Ron Gilbert e Tim Schafer, e ne ha ben d'onde: poche avventure grafiche a enigmi prima di allora erano riuscite a combinare così efficacemente l'umorismo in stile LucasArts con una storia thriller "seria".



«Parigi in autunno. Gli ultimi mesi dell'anno, e la fine del millenio.» George Stobbart, un turista americano in visita a Parigi, si trova in un piccolo bar della città a godersi la sua vacanza, quando un uomo vestito da clown entra nel locale, ruba una valigetta, e piazza una bomba, che poco dopo esplode uccidendo una persona. Decisosi a investigare su questo strano caso, unisce le forze con la bella giornalista Nicole Collard, insieme alla quale si lancerà in un'indagine che lo porterà al centro di una lotta secolare fra due antichi ordini alla ricerca di un manufatto perduto.



A un pubblico degli anni 2010, abituato a quasi un decennio di Dan Brown e Assassin's Creed, i temi della trama potranno sembrare già visti, ma non dimentichiamoci che stiamo parlando di un gioco del 1996, ovvero un tempo ben precedente al periodo in cui i templari erano un appuntamento annuale. E, soprattutto tenendo questo fattore in considerazione, la storia è decisamente solida: i misteri si dipanano, si susseguono e si infittiscono continuamente, alternandosi fra la cospirazione nel presente e la storia dei templari nel passato. Inseguire questa stratificazione di misteri è molto soddisfacente, spinge a ragionare molto su indizi sparsi per arrivare a ipotesi e agire di conseguenza. Le scene sanno creare tensione e senso d'urgenza (anche grazie al fatto che in quest'avventura morire per non aver pensato abbastanza in fretta è tutt'altro che difficile!). I dialoghi divertenti e di alta qualità danno a tutti i personaggi una caratterizzazione memorabile, ivi compresi alcuni NPC che nella storia sono poco più che passanti. I protagonisti, in particolare, pur essendo abbastanza banali e generici (tipici protagonisti hollywoodiani, potremmo dire) riescono a lasciare il segno, grazie all'evolversi graduale della loro relazione e, appunto, grazie agli eccellenti dialoghi. Mi sono trovato molto coinvolto nel mondo di gioco e sentivo che la mia identificazione con Nicole e George cresceva insieme al rapporto fra di loro.


Purtroppo, dal punto di vista del gameplay ha molti difetti, persino per un adventure game. Gli enigmi sono troppo, troppo anti-intuitivi, troppo trial-and-error (il che, come già scrissi per I Have No Mouth and I Must Scream, è un peccato mortale in un genere che dovrebbe basarsi sulla logica e il ragionamento). Soluzioni abbastanza semplici e sensate non funzionano per motivi imperscrutabili, e vengono invece richieste delle azioni che nessun essere umano sano di mente potrebbe mai dedurre logicamente

La sezione in Siria è particolarmente oscena da questo punto di vista: essendo il mio obiettivo di trovare dei soldi, come dovrei immaginare che suonare un campanello dopo aver accarezzato un gatto per farlo saltare su una mensola avrebbe fatto aprire una porta sulla quale sarebbe rimbalzata una pallina che avrebbe spaventato il gatto che avrebbe fatto cadere una statuetta che una volta ricoperta di cerone avrei potuto vendere a un turista che al mercato mio padre comprò? Se non mi viene fatto intuire che nel bagno c'è un oggetto che mi tornerà utile, o comunque se non mi viene in alcun modo data una ragione per entrarci, per quale motivo avrei dovuto lanciarmi nell'assurda ricerca della sua chiave, fra scopini del cesso e kebabbari assassini, per scoprire solo una volta entrato che ci avrei trovato un oggetto essenziale? Ci sono molti altri esempi di questo tipo, ma il succo è: un buon terzo degli enigmi sono abbastanza malfatti e sembrano nati più per essere gag che per essere dei puzzle. 

Anche alcune delle (molte) morti possibili sono abbastanza ingiuste: si va dal trial-and-error (non puoi sapere che c'è una minaccia finché non ci muori una volta) al pixel-hunting (ritentare più e più volte la sequenza finché non si trovano quei quattro pixel in croce che contengono l'oggetto su cui agire), entrambe situazioni parecchio frustranti.


Nonostante questo difetto (comunque facilmente risolvibile con una buona walkthrough e con tanto save scumming), rimane un classico del suo genere, che come molti adventure game dell'epoca sacrificava il gameplay in favore di trama, personaggi, e ricchezza dei dialoghi, raggiungendo in questi campi una qualità di tutto rispetto. Come forse sapete, ne esiste anche una versione "rifatta", che prende il nome di "Broken Sword: Director's Cut". Sinceramente, mi sento di sconsigliarla, quantomeno come prima giocata: il contenuto in più in cui si gioca nei panni di Nico è più che apprezzabile, ma la grafica è peggiorata (i disegni dell'originale erano stupendi), il contrasto fra il doppiaggio vecchio e quello nuovo si nota decisamente troppo, alcuni dialoghi sono stati rimossi, la riduzione dell'iconica narrazione iniziale di George è difficile da mandare giù, e la semplificazione di alcuni enigmi mi sa un po' di revisionismo storico, non so se mi spiego (io sono dell'idea che sia cosa buona e giusta fare l'esperienza dei giochi di una volta anche coi loro difetti, quantomeno a livello contenutistico, perché nessun medium artistico può crescere se la sua storia non rimane intatta). Quindi consiglierei una prima giocata nella versione "vanilla", e poi eventualmente una seconda nella versione Director's Cut per apprezzarne le aggiunte. Fortunatamente, GOG offre entrambe le versioni al prezzo di una, quindi consiglio di prenderlo da lì!

23 nov 2016

[Recensione] System Shock

Prima di quel System Shock 2 di cui l'apprezzatissima serie BioShock si dichiara successore spirituale, c'era un videogioco per PC, una reliquia dei tempi in cui l'archetipo della figaggine era per qualche motivo incarnato dallo hacker, che per primo inaugurò quella tradizione stilistica che avrebbe definito un sottogenere a parte del First Person Shooter: System Shock.

Il giocatore prende il ruolo di un non meglio identificato hacker che, dopo aver tentato di penetrare nel complesso dati di Citadel Station, una stazione spaziale di proprietà della mega-corporation TriOptimum, viene arrestato dalle forze private della compagnia e condotto dal suo amministratore, Edward Diego. Questi gli offre un patto: hackerare per conto suo SHODAN, la IA che controlla la stazione, e in cambio ottenere un'avanzatissima interfaccia neurale bionica e la caduta di tutte le accuse contro di lui. Al risveglio dal sonno criogenico, sei mesi dopo, alla fine del 2072, la stazione è caduta completamente sotto il controllo di SHODAN, e tutti gli impiegati che non sono stati uccisi sono stati trasformati in cyborg o in mutanti dall'IA impazzita.


Nonostante la prospettiva in prima persona, System Shock è molto più affine a un RPG, o persino a un Souls o un Metroidvania, rispetto a un FPS. Se contiamo che è uscito nel 1994, nel pieno dell'hype per l'uscita di Doom II, non è cosa da poco. Il combattimento non è il focus centrale del gioco: sì, sarà necessario affrontare grandi numeri di minacce, ma nella maggior parte dei casi sarà possibile approcciarle una a una, abbattendole velocemente magari sporgendosi da dietro un angolo, quindi il tipo di azione frenetica che caratterizzava gli FPS all'epoca è quasi del tutto assente (salvo, forse, le ultimissime sezioni). Il vero focus del gioco sta nell'esplorazione e nella narrativa ambientale: l'atmosfera è inizialmente inquietante e oscura, mentre si fruga ogni cadavere, ogni angolo, ogni cassa alla ricerca di armi, munizioni, cure, upgrade cybernetici, e mentre si raccolgono i primi pezzi di storia attraverso e-mail e audio log. I quali, peraltro, forniscono organicamente informazioni necessarie a proseguire, come codici o direzioni, e quindi devono spesso essere consultati ripetutamente. Gli occasionali messaggi di SHODAN, la cui inquietantissima voce cambia continuamente tono e sembra balbettare come un disco difettoso, danno una sensazione di minaccia costante da parte di questo nemico apparentemente onnipotente e onnipresente, dando vita al primo incontro con uno dei villain più memorabili della storia dei videogiochi. I livelli della stazione, vasti e complessi ma realisticamente elaborati intorno all'hub centrale, non sono completamente disponibili fin dall'inizio, ma si aprono progressivamente trovando chiavi o codici, riducendo il controllo elettronico di SHODAN, risolvendo piccoli puzzle per forzare le porte, hackerando tramite cyberspace, o trovando potenziamenti che permettono di affrontare sezioni prima insuperabili; fare backtracking fra gli ascensori e tornare a livelli già visitati per recuperare oggetti necessari ai livelli superiori è cosa tutt'altro che rara, e altrettanto lo è tornare sui propri passi per recuperare un oggetto che precedentemente si era deciso di lasciare a terra, o per usare una stazione di cura. Il tutto contribuisce a creare un'immersione molto intensa e molto particolare, oserei dire al limite del survival horror. Quantomeno all'inizio: molti livelli hanno un macchinario che, una volta attivato, resuscita automaticamente il giocatore ogni volta che muore, e andando avanti munizioni e oggetti sono abbastanza abbondanti da non essere più una preoccupazione, quindi la difficoltà va paradossalmente a calare man mano che si prosegue nella storia.

Dalla mia playthrough, un esempio sia dell'interfaccia che della quantità assurda di roba che avevo verso la fine
Sembrerebbe quindi avere gli ingredienti di un vero capolavoro, immersivo, complesso, atmosferico, e originale. Solo che, come anche la miglior carbonara diventa indigeribile se qualche degenerato ci aggiunge la panna, così System Shock perde punti (oggi come allora) quando se ne prende in considerazione il maggiore difetto: l'interfaccia francamente oscena. Bisogna districarsi fra tre diverse schermate d'inventario, la minimappa, il reader per log e mail, il controllo armi con il numero e il tipo di munizioni, l'analisi del bersaglio, e i potenziamenti. Il tutto con una tragica carenza di hotkey: bisogna fare quasi tutto col mouse, che andrà quindi alternato fra la schermata "d'azione" (sparare, selezionare oggetti, guardare) e le varie schermate di controllo. Ad esempio: per ricaricare l'arma, bisogna sbloccare il puntatore, selezionare la schermata armi, cliccare una volta per estrarre il caricatore attuale pieno o vuoto che sia, quindi cliccare sul tipo di munizione che si vuole inserire. È chiaro come in situazioni frenetiche restare senza munizioni significhi un game over quasi assicurato, perché la procedura per ricaricare può richiedere una decina di secondi anche quando si è presa confidenza con l'interfaccia. Non esistono né si possono impostare comandi per gli slot armi, né per usare rapidamente un medipack, né per ricaricare l'arma, né per aprire un inventario specifico; in compenso però ci sono SEI tasti per gestire la posizione verticale e orizzontale del corpo, per qualche incomprensibile motivo. Direi che è come organizzarsi la schermata in un MMORPG, se non fosse che a confronto persino World of Warcraft è Ico. Permette una profondità di controllo davvero notevole, ma è inutilmente ostico e macchinoso. E tutto questo, ci tengo a dire, avendo io giocato la versione enhanced disponibile su GOG (che include la mod per abilitare il mouselook, all'epoca non presente!) con un mouse da MMO con 28 funzioni impostabili! Non oso immaginare come potesse essere giocarci all'epoca, ma non mi stupisce che abbia venduto poco. Lasciamo poi perdere l'incomprensibile minigioco del cyberspace, bruttissimo da vedere, dimenticabilissimo, e semplicemente ingiocabile.

Cosa cacchio è 'sta merda, seriamente.

Il che è davvero un peccato, perché tolto questo problema è un gioco solidissimo ancora oggi. Immersiva atmosfera a metà fra horror e cyberpunk, una trama semplice ma avvincente, una sfida non indifferente, ambienti vasti e ben strutturati, e un gameplay avanti dieci anni. Oggi, forse, grazie alla versione Enhanced e ai set mouse+tastiera da gaming, è forse più giocabile di quanto non sia mai stato, quindi mi sento di consigliarlo vivamente agli appassionati di retrogaming e agli amanti di Bioshock, perché nonostante tutto è indubbiamente una pietra miliare; armatevi però di tanta pazienza, e partite dal presupposto che dovrete passare la prima ora a bindare comandi e a studiare l'interfaccia.

22 nov 2016

[Commenti/Rant] Manifesto del Partito Comunista

Ho dedicato un po' del mio tempo alla lettura del Manifesto del partito comunista nella sua versione storica del 1848. Comunque la si pensi dal punto di vista politico-ideologico, è innegabile che lo scritto di Karl Marx e Friedrich Engel, due dei pensatori più arguti e completi dell'Ottocento, sia una mirabile fotografia del suo tempo, un enorme passo avanti nell'organizzazione razionale delle sinistre operaie, e un «capolavoro di oratoria politica» (Umberto Eco) dallo stile preciso, conciso, cristallino, ricco di immagini retoricamente efficacissime quanto di chiarezza scientifica. 

Nell'edizione in mio possesso, quella di ET Saggi, è accompagnato da una postfazione di Bruno Bongiovanni, che pur essendo scritta con uno stile inutilmente arzigogolato e pieno di latinismi[1], negli ultimi capitoli presenta un' interessantissima disamina dei revisionismi marxisti e dei comunismi (il plurale è d'obbligo) nati dalle ceneri del "marxismo ortodosso" (corrente rinnegata dallo stesso Marx, e di fatto morta nel 1922); ne citerò un passaggio in chiusura, ma per adesso torniamo alla strabiliante modernità del Manifesto.


Certo, la sua analisi storica ed economica del capitalismo industriale è tutt'altro che impeccabile: la descrizione dei processi storici come conflitti dialettici fra classi e fra rapporti di produzione dei beni è limitata, e molte sono le predizioni sull'andamento "naturale" ed "inevitabile" del sistema borghese che si sono rivelate errate, in particolare per alcuni sviluppi politici e tecnologici e per alcune controtendenze che avrebbero limitato o quantomeno ritardato quei processi fotografati in questo testo. Similmente, alcune (non tutte) delle soluzioni proposte sono fondamentalmente impraticabili, o quantomeno poco chiare

Però, molte delle sue analisi sulla realtà del capitalismo industriale sono vere oggi come all'epoca, e molte altre sono state mitigate solo dopo decenni di lotte sindacali (basti pensare che nel 1848 si festeggiava il LIMITARE la giornata lavorativa a DIECI ORE, peraltro solo in Inghilterra, come una vittoria senza precedenti!). Quattro cose in particolare non aveva previsto:

1) L'invenzione dell'informatica, l'aumento delle funzioni della pubblica amministrazione all'interno degli stati e l'esplosione del terziario, che avrebbero: da un lato spostato il fulcro dell'economia lontano dalla semplice produzione di beni concreti (e, nel caso dei mercati finanziari, lontano dalla realtà); dall'altro, creato una serie di classi intermedie fra il proletariato e i grandi capitalisti, classi relativamente benestanti che sarebbero diventate maggioritarie, alterando la rete di rapporti sociali e produttivi prevista da Marx..

2) Le progressive conquiste di sindacati e sinistre, che avrebbero migliorato notevolmente le condizioni e i diritti del lavoro salariato, quindi creando un capitalismo superficialmente più umano. Certo, il rovescio della medaglia è che questo ha rallentato l'unione solidale fra i proletari, alimentato le guerre fra poveri (autoctoni vs. immigrati, pubblico vs. privato, piccolo imprenditore vs. dipendenti ecc.), spostato lo sfruttamento in stile ottocentesco in altre nazioni (nelle fabbriche che producono iPhone fra operai che tentano il suicidio, ad esempio), e quindi allungato di molto la vita al sistema capitalistico.

3) La sopravvivenza e anzi continua risorgenza di sentimenti di nazionalismo nonostante la globalizzazione dei mercati, degli scambi culturali, del sistema economico e, con esso, della condizione di comune oppressione del proletariato. Tanto fra le due guerre mondiali quanto oggi, assistiamo a continui rigurgiti di nazionalismo e isolazionismo. Marx legava questi sentimenti all’insieme dei rapporti economici che regolano la società; secondo me, invece, il nazionalismo ha un’origine più profonda, più legata a un istinto primitivo, animalesco, di distinguere un “noi” e un “gli altri”, di categorizzare un insieme che si è in grado di capire empaticamente, e nel quale inserirsi per sentirsi emotivamente protetti ed appartenenti a qualcosa di più grande di sé, contro un insieme che invece non si riesce a capire e si percepisce in qualche modo come inferiore o comunque “diverso”, se non addirittura “nemico”. Questa tendenza psicologica primitiva, secondo me, giustifica tanto il nazionalismo quanto le innumerevoli divisioni all’interno di qualsiasi gruppo umano, da donne vs. uomini a polentoni vs. terroni a truzzi vs. metallari.

4) L'egemonia culturale che lo schema di valori del capitalismo si è conquistata, soprattutto grazie ai mass media di origine americana e a quella che Boudrillard definiva "iperrealtà", ergendosi a pensiero unico, a substrato talmente radicato da essere ormai considerato natura inestricabile delle cose invece che prodotto umano (e, quindi, storicamente determinato e modificabile).


Del resto, il primo, più feroce, e più efficace critico del marxismo fu Marx stesso, che dedicò il resto della sua vita a uno studio onnicomprensivo mirato a una continua revisione delle proprie teorie storiche ed economiche. Questo Manifesto è ben lontano dall'essere il culmine della teoria marxiana e ancora meno della teoria comunista, anzi, ne rappresenta solo un punto. Eppure, rimane una lettura di una potenza e importanza difficilmente quantificabili. Non solo perché si tratta di una sintesi senza pari fra retorica galvanizzante e analisi razionale, ma semplicemente perché, nonostante i suoi limiti, è ancora moderno. 

Anche nell'economia moderna e informatizzata, in cui parla addirittura di settore quaternario, industria e agricoltura rimangono le basi fondamentali della nostra esistenza (il megapresidente megagalattico della più grande compagnia alimentare del mondo non è niente senza l'immigrato sottopagato che gli raccoglie le arance, Steve Jobs non è nulla senza gli operai taiwanesi che gli saldano i circuiti), lo sfruttamento al ribasso di grandi masse di lavoratori è tutt'ora una realtà, così come la perdita e la dequalificazione di posti di lavoro a causa del progresso tecnologico (si stima che la robotica potrebbe completamente sostituire il 47% del lavoro negli Stati Uniti entro vent’anni, quasi un lavoro su due[2]); la concorrenza sfrenata, lo sfruttamento non regolato e le speculazioni "virtuali" generano una crisi economica dietro l'altra (si pensi a quella attuale[3]) e causano una continua e preoccupante riduzione delle risorse naturali, rafforzando l'idea di un sistema miope, dedito allo #yolo; l'interdipendenza economica fra le nazioni è più vera oggi che mai, e rende qualunque idea di isolazionismo, protezionismo, autarchia o "purezza" ancora più pateticamente anacronistica; la dinamica fra le classi, o meglio, la dialettica fra coloro che hanno ricchezza e potere e coloro che non ce l'hanno, è tuttora la spiegazione più adeguata e onnicomprensiva per affrontare molte tensioni sociali della società odierna, molto più di discorsi autoreferenziali di "patriarchia" o "white privilege". 

Si può dire che molti dei processi previsti da Marx, pur coi rallentamenti e le controtendenze che gli hanno fatto rivedere costantemente le previsioni, pur con le guerre che sfogando le crisi hanno allungato di molto la vita al capitalismo, sono forse più veri oggi di quanto non lo fossero allora.

Ma ancora di più, forse, perché presenta motivazioni e passi razionali a un sogno, un ideale utopico, come un anelito romantico: un ideale di uguaglianza universale nel quale la tecnologia e i mezzi di produzione siano sottratti agli egoismi miopi di poche persone, e siano messi al servizio programmato a lungo termine del bene comune, garantendo a ogni individuo un'esistenza dignitosa e, con essa, la possibilità di realizzarsi nelle proprie aspirazioni e inclinazioni; senza il primitivo bisogno di prevalere sugli altri per trovare un valore alla propria esistenza, senza infantili nazionalismi a dividere esseri umani che, pur nelle loro spesso inconciliabili differenze, sono uniti sotto l'unico giogo che pesa ugualmente su contadini e magnati, operai e monarchi, bianchi e neri, uomini e donne, tutte le sessualità e le religioni e le idee politiche: quello dell'inevitabile miseria della condizione umana, dell'insopportabile inutilità di un'esistenza breve, piccola, eppure con un potenziale collettivo infinito per l'automiglioramento. 

Giorgio Gaber diceva: «Qualcuno era comunista perché pensava di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri.
Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché era disposto a cambiare ogni giorno, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.
Qualcuno era comunista perché con accanto questo slancio ognuno era come più di se stesso, era come due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita. 
Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici. E ora? Anche ora ci si sente come in due: da una parte, l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana, e dall’altra, il gabbiano, senza più neanche l’intenzione del volo, perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo.»

Parole che proprio oggi, che ci troviamo fra l'incudine di sinistre fallimentari e il martello di destre reazionarie, suonano care a chi, come me, osa ancora appoggiarsi a quella parola, oggi vista quasi come una bestemmia, insozzata irreparabilmente da totalitarismi prima e da figure politiche squallide poi: marxismo. Parola che Marx stesso, "Kritik intrinsecamente antiautoritario" (Bongiovanni), rinnegava ardentemente, ma che io voglio invece rivendicare, sebbene con un significato leggermente diverso. Non, cioè, come uno dei tanti dogmi da sposare acriticamente, ma come un atteggiamento di pensiero teso al continuo miglioramento e alla continua revisione delle proprie posizioni, e verso un'utopia comunista o, quantomeno, socialista.

Vorrei chiudere citando un passo dalla postfazione di Bongiovanni, che reputo particolarmente efficace:
«[S]i può dire che, sul terreno storico, il “comunismo” al singolare non è esistito. Sono esistiti, anche escludendo le minoritarie eterodossie, i comunismi. Riconducibili a tre tipologie, ricche a loro volta di differenze al loro interno. L’unico in qualche modo non spurio […] e pur in continuazione prepotentemente autorevisionistico, è stato il comunismo-bolscevismo (URSS 1917-1991, Europa orientale 1945-89). A esso si possono aggiungere il comunismo-decolonizzazione (Cina, Corea, Cuba, Indocina, afrocomunismi), tappa interna, provvisoria e filosovietica del processo di liberazione nazionale e di indipendenza economica; e il comunismo-socialdemocrazia (PCI, PCF e altre esperienze minori)[…]. 

A differenza del “comunismo”, sia bolscevico che decolonizzatore, peraltro risoltosi rapidamente in sistema di potere autoreferenziale e con finalità pratiche di protomodernizzazione accelerata delle aree arretrate, la socialdemocrazia […] non si è proposta, neppure ideologicamente, la demolizione del capitalismo. La sua caratteristica, e la sua forza, ha consistito nella capcità di combinare la critica e l’accettazione del capitalismo. Si è cioè adattata […] alle trasformazioni capitalistiche, braccandole continuamente, e imponendo […] la prospettiva del bene pubblico  […] all’anarchia congenita, e alla lunga autodistruttiva, del mercato. […] 

Nella seconda metà degli anni ’80, […] la socialdemocrazia fu presa di sorpresa e scavalcata su quello che da sempre era stato il suo terreno d’elezione, ovverosia l’internazionalismo. Il capitalismo, infatti, […] approfittando del deficit di politica che ha contraddistinto il decennio della deregulation, si è sbarazzato  […] della corporate citizenship che lo radicava in un territorio dato, ed è diventato compiutamente cosmopolitico, realizzando la sua vocazione da sempre più profonda. […] I lavoratori si sono a loro volta trovati a essere in concorrenza tra di loro su scala mondiale. La produzione, trasportata dalla dinamica inarrestabile dei flussi finanziari, si è dislocata […] alla ricerca di aree di recente industrializzazione in grado di fornire elevata efficienza, bassi salari e disponibilità di lavoro vivo scarsamente protetto

[…] Mai la classe lavoratrice è stata tanto internazionale, mai il programma socialista, che si identifica con il controllo politico-sociale-democratico dell’uomo sul proprio agire economico e sul denaro, è stato tanto impotente, se non addirittura assente. L’economia […] si è svincolata dalla società […].

È sul terreno internazionale che si gioca in realtà la partita. L’internazionalismo radicale dell’economia può essere  […] “socializzato”, vale a dire ricondotto nell’ambito della società da cui è sfuggito, solo da una politica radicalmente internazionale che accetti, e non subisca, la sfida dell’economia. Lo spettro della domanda di giustizia sociale e di convivenza razionale, lasciata libera e inespressa dalla tragedia dei totalitarismi comunisti  […], si aggira ancora, in attesa di risposte, in un mondo insieme globalizzato e lacerato da colossali diseguaglianze. 

Ed è proprio su questo terreno che il Manifesto, così irrimediabilmente antico e così sorprendentemente moderno, appare ancora attuale. […] solo nella fine del millenio il processo storico individuato da Marx parrebbe giunto a compimento. […] il Manifesto è più che mai indispensabile per comprendere criticamente il mondo che ci circonda e per riafferrare, obiettivo credo condiviso da tutti gli uomini di buona volontà, l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole….»




[1] Chiunque scriva espressioni come "cupio dissolvi antisociale" e "fortezza claustrofilica" sta chiaramente compiendo atti anti-allocutivi di onanismo linguistico, autoreferenzialmente slegati da qualunque intentio planitatis… visto, Brown Bon Jovi? Li so usare anch'io i paroloni, ma non significa che supercazzolare sia una buona idea quando si vuole comunicare chiaramente!


[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Crisi_dei_subprime, http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Finanza%20e%20Mercati/2010/04/crisi-credito-intro.shtml?uuid=b8a2cd0c-496e-11df-bd6e-7ceda8f3e82a

27 set 2016

[Risposta] L'episodicità del videogioco

Qualche tempo fa, mi è capitato di leggere su Spaziogames.it questo interessante articolo scritto da Stefania Sperandio, che, oltre a essere anche un'ottima scrittrice, è una professionista di livello nel campo del giornalismo videoludico italiano che sono lieto di definire una mia conoscenza di lunga data, e al cui lavoro sulla community di MetalGearWeb devo una parte importante della mia vita e delle mie amicizie. Un articolo, dicevo, riguardo l'episodicità in stile serie TV nei videogiochi, che secondo Hideo Kojima è la direzione in cui si muoverà il medium. Mi piacerebbe dire la mia su quest'argomento, buttando alcune riflessioni scaturite dalla lettura dell'articolo in questo blog che, giustappunto, nasce come un taccuino di un tizio qualunque senza alcuna pretesa di serietà.

Da un lato, capisco bene le motivazioni di budget, così come capisco il discorso dell'apportare correzioni in medias res: si può obiettare dicendo che, idealmente, un'opera artistica dovrebbe trasmettere l'intenzione inalterata del suo autore, ovvero esprimere con meno interferenze esterne possibile una determinata visione artistica individuale, ma è indubbio che un po' di feedback in corsa possa aiutare a limare gli elementi di incertezza, o a far notare errori, o a dare più spazio di sperimentazione con meno rischi; forse se George Lucas non fosse stato circondato di yes men La minaccia fantasma e L'Attacco dei cloni non sarebbero usciti così, e al contrario senza reazioni dei fan Kishimoto avrebbe forse ucciso davvero Hinata (you heartless monster). Credo si possa sperare nell'integrità degli autori affinché non cedano sugli aspetti che considerano centrali. 

Altro argomento più che condivisibile è il principio per il quale un'opera suddivisa in puntate brevi possa essere più approcciabile da un pubblico che sempre meno si può permettere di dedicare due-tre ore di fila a un'hobby: diamine, io ormai scelgo il prossimo gioco dal mio backlog solo dopo essere passato su howlongtobeat.com per farmi un'idea della sua durata, e mi rifiuto di iniziare fumetti o serie che vanno avanti all'infinito (come molti shōnen manga, o l'interezza del genere supereroistico occidentale). Nel mio articolo sulla difficoltà nei videogiochi ho attaccato alcuni modi di creare difficoltà proprio con l'argomento "la gente non ha più tempo da perdere con le stronzate". E in quest'ottica, un The Walking Dead può offrire piccole esperienze che possono dare un senso di conclusione nel giro di una-due ore, senza per questo perdere impatto nella narrativa orizzontale.

Alan Wake è un titolo che a mio avviso ha adottato una narrativa simil-seriale in un modo tale da subirne tutti gli svantaggi senza sfruttarne nessun vantaggio.

Dall'altro lato, però, non sono sicuro che la narrativa seriale possa essere sempre adatta ad ogni videogioco, perché obbliga la storia a seguire un certo standard (ovvero, ogni episodio deve sia essere autoconclusivo che portare avanti la trama orizzontale) che può esporla a uno di due rischi: il rischio di indebolire la trama orizzontale per l'esigenza di "diluirla" in storie autoconclusive, oppure quello di creare trame verticali deboli che servono solo in funzione della trama orizzontale. Il che è accettabile, ininfluente, o addirittura vantaggioso per storie di un certo tipo (penso a Sam&Max, Life is Strange, o a un eventuale Assassin's Creed a episodi), ma è invece una serissima badilata sugli stinchi per storie di altro tipo, e penso appunto a un Metal Gear Solid, oppure a Uncharted, Broken Sword, System Shock, o a un'opera complessa come Spec Ops: The Line; storie cioè che hanno bisogno di un pacing che non venga "resettato" ogni due-tre ore, e di concentrarsi senza interruzioni su un unico filo di trama. Esistono titoli che non soffrirebbero da una divisione in stile TellTale Games (mi vengono in mente The Last of Us o Valkyria Chronicles), ma non si può dire lo stesso di tutte le storie di tutti i generi. A meno di non intendere la serialità in stile manga, ovvero come semplicemente una storia divisa in parti in cui l'aspetto della trama verticale è trascurabile o inesistente.

Inoltre, c'è da dire che i sandbox o gli RPG da centinaia di ore esistono ancora, continuano ad avere successo, e sembrano essere intenzionati a continuare ad esistere: The Witcher 3 è stato pluripremiato, Fallout 4 ha avuto un eco che nemmeno il colpo di stato in Turchia (non quello fallito, quello bianco avvenuto subito dopo), ogni volta che esce un GTA il mondo intero si bagna le mutande, e giochi letteralmente infiniti (come World of Warcraft, League of Legends, Minecraft) continuano ad avere una quantità spaventosa di utenti.

Infine aggiungo una mia tendenza, assolutamente personale: io ormai nemmeno inizio una serie finché non è conclusa. Credo che le ultime serie che ho visto mentre erano in corso siano state Black Rock Shooter e la terza stagione di My Little Pony: Friendship is Magic, e anche lì ho visto solo i primi tre-quattro episodi stando in pari prima di rompermi il belino e guardarmi il resto, col ritmo che volevo io, una volta finite. Non ho nemmeno visto il primo film de Lo Hobbit prima che fosse uscito il terzo, e non ho fatto lo stesso con Il risveglio della Forza solo perché sono abbastanza fanatico di Star Wars da scrivere articoli come questo. Non per principio, semplicemente per pigrizia:
anche a parità di prezzo, preferisco comprare un cofanetto piuttosto che tre biglietti del cinema più tre DVD. Sono perfettamente conscio di essere un'eccezione, e sono anche conscio del fatto che se tutti facessero come me questi media sarebbero morti di stenti decenni fa, ma è per dire che non necessariamente il pubblico sarebbe ricettivo a una svolta di questo tipo.

Sotto l'articolo di Spaziogames ci sono alcuni commenti abbastanza interessanti. Mi sono permesso di raccoglierne tre (con cui non necessariamente concordo, ma che credo meritino di essere letti). Il sentimento prevalente sembra essere di scetticismo verso il futuro suggerito da Kojima.

Quindi penso che non solo i giochi non seriali, ma anche quelli "corposi e lunghi" continueranno ad avere il loro spazio. Certo, probabilmente si ridurrà, come si è ridotto negli ultimi anni, ma dubito che andrà a sparire; così come dubito che il gioco episodico, oggi relativamente raro, andrà a diventare addirittura prevalente.