Il mondo dell'arte moderna di Los Angeles, fra galleristi senza scrupoli, arrivisti, e critici in grado di determinare il destino di un autore con un singolo articolo, è sconvolto dalla scoperta di un artista mai sentito prima, Dease, i cui quadri visionari e cupi fanno immediatamente presa su chiunque li veda. Mentre vari personaggi strategizzano per spartirsi quando più possibile la gloria e la ricchezza di questo artista defunto, che aveva espressamente richiesto che i suoi dipinti venissero distrutti, non ci vuole molto perché l'arte sembri prendersi la sua vendetta, e perché il potere oscuro e viscerale nelle opere di Diese si tramuti in mortale.
Questa curiosa premessa dal discreto potenziale è una pianta da cui possono sbocciare uno di due fiori: o terrore vero, oppure ilarità imbarazzata. Un rischio, del resto, comune a molti film del genere. Velvet Buzzsaw, nella sua ambientazione viscida e altolocata, sembra promettere di mettere il potere misterioso dell'arte, quella più vera, quella che nasce dai più profondi e inconfessabili turbinìi emotivi, nella stessa compagnia di cui fanno parte gli yūrei e le possessioni demoniache.
Ordunque, bando agli indugi: Velvet Buzzsaw, come film horror, è bruttino. Appartiene a quella categoria di horror in cui tutti i personaggi sono delle merde insopportabili e lo spettatore non vede l'ora che inizino a morire, pronto ad elevare cartelloni e cori da stadio in onore dell'assassino. Se l'atmosfera inquietante viene creata abilmente, all'inizio, e alcune morti sono certo estremamente creative, la prima uccisione viene sprecata su una scena talmente eccessiva e malfatta da risultare ridicola, e da lì in poi la ripetitività dei setup è tale che qualunque tensione muore molto prima della vittima di turno. Praticamente tutto quello che c'è da sapere sulla storia viene rivelato nel trailer, e il finale si rifiuta di dare qualunque chiusura ad una trama tanto interessante nella sua premessa quanto banale e insipida nella sua esecuzione.
Salvezza della narrazione sono i personaggi, abbastanza ben recitati (Jake Gyllenhaal e John Malkovich funzionano sempre), ben definiti nella loro caratterizzazione (per quanto sia spesso una caratterizzazione da immonde e irredimibili teste di cazzo) e ben strutturati nei loro rispettivi archi e conflitti, da dare allo spettatore un'ancora più che sufficiente per volersi interessare al film.
Ma vorrei spingervi a un piccolo cambio di prospettiva. E se, invece di considerarlo un horror, lo considerassimo una commedia?
L'autore (Dan Gilrow) sembra avere
tutta l'intenzione di mostrare il mondo dell'arte moderna come un covo di
squali e vipere in cui a dominare sono speculazioni, strategie al limite della legalità e tattiche da piazzista piuttosto che
vero amore per la libera espressione dell'ingegno umano, e non manca occasione di ridicolizzare i personaggi che vi strisciano alla ricerca della prossima preda da pugnalare alle spalle. Esilarante, in questo senso, una scena in cui Jon Dondon entra nello studio di un famoso artista in crisi (Malkovich) e definisce,
ammirato, "opera interessantissima" letteralmente dei sacchi di
spazzatura che erano stati dimenticati lì.
Ad uccidere non sono mai direttamente i quadri di Dease, ma altre opere d'arte presenti sulla scena, spesso opere che la vittima ha deprecato o cercato di mungere.
Sembra che la vendetta di Dease non colpisca indiscriminatamente, come un Jason Vorhees qualsiasi, ma solo chi cerca di speculare sull'arte, abbassandola così ad articolo per ricchi collezionisti borghesi, deprecando o sminuendo invece "l'arte per l'arte". Da anticapitalista con un marcatissimo disprezzo per il mondo della mercificazione dell'arte, non posso che apprezzare questo aspetto.
Ad uccidere non sono mai direttamente i quadri di Dease, ma altre opere d'arte presenti sulla scena, spesso opere che la vittima ha deprecato o cercato di mungere.
Sembra che la vendetta di Dease non colpisca indiscriminatamente, come un Jason Vorhees qualsiasi, ma solo chi cerca di speculare sull'arte, abbassandola così ad articolo per ricchi collezionisti borghesi, deprecando o sminuendo invece "l'arte per l'arte". Da anticapitalista con un marcatissimo disprezzo per il mondo della mercificazione dell'arte, non posso che apprezzare questo aspetto.
Quindi
invito anche voi a vederlo così. Non come un horror che vi faccia stringere i
braccioli della poltrona, ma come una dark comedy sulle vipere infami
che strisciano in un mondo che dovrebbe essere quello della più alta
espressione dell'intelligenza e della sensibilità umane. Principalmente perché, visto con questi occhi, è un film niente male. Forse
non avrete gli incubi, ma almeno godrete nel vedere quelle serpi schiacciate
come meritano.
E poi forse noterete l'immensa ironia insita nel provare questi sentimenti mentre date soldi a Netflix.
E poi forse noterete l'immensa ironia insita nel provare questi sentimenti mentre date soldi a Netflix.