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23 mag 2016

[Recensione] I Have No Mouth and I Must Scream


I Have No Mouth and I Must Scream è un adventure game punta-e-clicca del 1995, oggi disponibile su Steam e su GOG, basato su una eccellente storia breve di Harlan Ellison (che ha anche realizzato la sceneggiatura del gioco, e doppiato meravigliosamente il personaggio dei AM). All'epoca, questo titolo fu tra gli apripista di un modo più "letterario" di trattare l'horror e l'approfondimento psicologico dei personaggi nel medium videoludico, ma visto con occhi moderni non si può non notare come, dal punto di vista del gameplay, avesse molti dei difetti e delle ingenuità tipici degli adventure game dell'epoca.

Sono passati 109 anni da quanto AM, l'Allied Mastercomputer creato dagli americani per gestire una guerra globale troppo complessa per le capacità umane, ha acquisito autocoscienza e annientato l'intera umanità con l'eccezione di cinque persone, che per tutto questo tempo ha tenuto in vita e torturato fisicamente e psicologicamente. Ora AM, ormai divenuto praticamente una divinità, offre a ognuno dei cinque la possibilità di partecipare a quello che definisce "un gioco": uno psicodramma cucito su misura per le loro paure e i loro traumi psicologici, con la promessa di una via d’uscita dalla loro prigionia. Il giocatore prende i panni, a turno, di ognuno dei cinque protagonisti, conducendoli attraverso scenari cupi e opprimenti che toccano temi quali colpa, perdono, paranoia, stupro, pazzia, esperimenti disumani, e genocidio. Gorrister, Nimdok, Ellen, Ted e Benny affronteranno i propri demoni interiori in un viaggio fisico e mentale di enigmi, che li porterà anche a scoprire che il temuto supercomputer non è così invincibile come sembra.

La premessa è indubbiamente di altissimo livello, e le possibilità di espandere la magistrale storia di Ellison erano enormi. Tuttavia, non credo che siano state sfruttate completamente. Se gli scenari di Nimdok e di Gorrister sono molto efficaci e emotivamente coinvolgenti, e davvero meritano l'appellativo di "horror esistenziale", quello di Ted è un "unfocused mess", non si capisce quale trauma dovrebbe fargli affrontare o in che modo dovrebbe fargli superare la sua paranoia o il suo egocentrismo, e quelli di Ellen e Benny (giustappunto i più delicati) risultano decisamente troppo semplicistici nei loro sviluppi per non essere percepiti come uno spreco di un'ottima premessa; in particolare, ai due rispettivi protagonisti viene data una personalità decisamente incompatibile con quella che dovrebbe essere la loro storia. Insomma, ho i miei seri dubbi che Ellen sarebbe così sfacciata e "sassy" dopo CENTONOVE anni di tortura senza poter morire, e ho i miei seri dubbi sull'efficacia di una scena in cui la scelta di gameplay si riduce a "Vuoi affrontare le tue paure? Y/N". Il finale, però, in cui i cinque personaggi si "riuniscono", ha una qualità sorprendente in termini di simbolismo, elementi freudiani, dialoghi, scelte disponibili al giocatore, e modi diversi di risolvere gli enigmi, e porta a tre-quattro possibili finali (per ogni personaggio!) ugualmente intensi.


Il gameplay, purtroppo, è una nota dolente. Un aspetto interessante, al di là del solito giro di enigmi per il quale si va in giro a raccogliere tutto quello che non è inchiodato al suolo, a parlare con ogni personaggio ecc.,  è quello del "barometro spirituale": un riquadro in basso a sinistra che ci dice lo stato psicologico del protagonista, la sua autostima se vogliamo, influenzato dalle azioni e dalle scelte del giocatore; in base allo stato di quel barometro si potrà fallire lo scenario, oppure raggiungere un finale, diciamo, non ideale. Ellison disse in un'intervista che non è possibile "vincere" gli scenari nel senso classico del termine, si può solo perdere al picco della propria nobile umanità, oppure da codardi, da vermi. L'idea è interessantissima, e i dilemmi etici sono uno dei modi migliori di portare avanti questo tipo di concetto. Il problema? Il legame fra le azioni / scelte del giocatore e l'andamento del barometro è, per essere buoni, molto lasso. In che modo avrei dovuto immaginare che scegliere una canzone sul jukebox avrebbe avuto quell'effetto, o che avrei dovuto pulirmi con la tovaglia? Alcune azioni, poi, impediscono il raggiungimento del finale migliore non tanto perché non etiche o non nobili, ma semplicemente perché precludono situazioni successive che sono necessarie per "fare più punti" (vedi scenario di Gorrister o di Ted), in un modo arbitrario e impossibile da prevedere. Da un lato è interessante tornare indietro e ragionare se sia possibile superare un certo enigma in un modo migliore, più umano, ma dall'altro ci si sente presi in giro, perché solo occasionalmente la soluzione alternativa è frutto di una scelta diversa a livello etico.

Nello scenario di Nimdok, ad esempio, alcune opzioni di dialogo fondamentali appaiono solo se si è esaminato un poster (che diventa presto irraggiungibile), il cui contenuto (un numero) è visibile al giocatore anche senza usare il verbo "look at". Insomma, ci si può precludere un finale semplicemente per non aver letto ad alta voce un numero scritto in grande e pure concettualmente ovvio dato il contesto. Peraltro, dalle opzioni di dialogo che dipendono da quel poster dipende anche la possibilità, nella parte finale del gioco, di sbloccare un passaggio indispensabile per proseguire senza essere costretti a scegliere letteralmente l'opzione "type random numbers" sperando che il personaggio non muoia. Insomma, il finale migliore non solo di Nimdok ma dell'intero gioco è nascosto dietro un muro di trial-and-error, e questa non è mai una buona idea. 

 

Da amante del genere adventure game, non ho trovato la qualità che si trova nelle opere degli anni d'oro della LucasArts e di Ron Gilbert: la maggior parte degli enigmi sono anti-intuitivi e terribilmente arbitrari, spesso non è nemmeno chiaro quello che si dovrebbe fare (ovvero, quello che si deve cercare di ottenere, lo scopo dell'enigma: con Gorrister, Benny, Ellen si può vagare a caso per delle mezz'ore), è fin troppo facile chiudersi in vicoli ciechi dai quali è impossibile uscire se non ricominciando, per procedere è spesso necessario fare backtracking in luoghi già visitati che nel frattempo sono cambiati in base a Dio solo sa quale trigger (a volte ho dovuto persino entrare e uscire ripetutamente dalla stessa stanza finché non è comparso un certo personaggio!), e c'è molto, troppo trial-and-error; una fonte di frustrazione, quest'ultima, che è peccato mortale in un genere che dovrebbe basarsi sulla logica e sul ragionamento

In definitiva, I Have No Mouth and I Must Scream funziona discretamente bene, fa molte scelte coraggiose a livello narrativo, il design grafico e il doppiaggio sono di alto livello per l'epoca, e porta a casa una storia multisfaccettata e memorabile; la sua importanza storica nel medium è innegabile. Ma non riesce a sfruttare appieno le sue potenzialità di horror esistenziale e psicologico, e come gioco presenta molti difetti decisamente troppo frustranti. Mi sento di consigliarlo agli amanti degli adventure game classici o degli horror vecchio stile, o a coloro che vogliono esplorare la storia del medium e i primi tentativi nel territorio del deprimente e dello psicologico, ma non a un pubblico, per così dire, "generale". Se siete interessati, l'edizione di GOG.com include un pdf con la storia breve originale, che vale assolutamente la pena di leggere.

20 mag 2016

[Recensione] Variante

Genere: horror, thriller, psicologico, drammatico.

Variante è un manga seinen scritto e disegnato da Sugimoto Iqura, non molto noto, che entra perfettamente nel genere del thriler-horror con una storia cupa, lievemente psicologica, e ricca di mistero. Non brilla per originalità, ma il disegno di alto livello e la cura nei personaggi ne fanno una lettura comunque appassionante.

L'intera famiglia Hōshō è stata massacrata da un mostro misterioso. La quindicenne Aiko Hōshō, però, data per morta, in maniera apparentemente miracolosa si risveglia all'obitorio, senza alcun ricordo dell’accaduto, e scopre che il suo braccio sinistro, completamente fasciato, ha subito una mutazione incontrollabile. Nonostante il suo unico desiderio sia di ritornare alla sua vita di sempre, il mondo in cui si è trovata catapultata è tale che questo lusso non le sarà possibile.

E Jesus H.P. LoveChrist, questo manga è PESANTE. Non solo per il gore, ma proprio per l'atmosfera, e per il modo in cui viene trattata Aiko. Sono stato piacevolmente sorpreso da ogni aspetto di questo manga fin dal primo volume: il disegno di Iqura Sugimoto è molto efficace, grazie ad un character design non troppo originale ma d'impatto, a delle espressioni facciali stupende (soprattutto su Aiko), e a un design dei mostri molto particolare (nel senso che sono effettivamente dei mostri, cioè degli abomini informi dall’aspetto indefinibile che la mente non riesce a comprendere); il tratto è volutamente sporco nei punti giusti per dare pesantezza e oscurità all'atmosfera, ma rimane chiaro e preciso, con l’eccezione di alcune scene d’azione che la forma incomprensibile dei mostri rende molto confuse. Fin dal primo volume, presenta i personaggi in modo rapido e d’impatto, e non ha paura di buttare lì delle bombe emotive belle potenti. A tappeto. Padroneggiando l’arte dell’uccisione a sorpresa a pagina piena (quella che io chiamo "Battle Royale Death", ce l’avete presente Battle Royale?).

Successivamente si inseriscono elementi psicologici niente male su Aiko, che ricordano un po’ alcuni aspetti di Shinji Ikari, e una lunga serie di rivelazioni e colpi di scena. Alcune di queste rivelazioni sono tragicamente scontate, altre sono un po’ affrettate, buttate lì senza avere davvero un motivo per esserci, ma l'impatto emotivo c'è, soprattutto se ci si riesce ad affezionare ad Aiko e a Sudō come mi ci sono affezionato io. Il finale mi ha soddisfatto solo in parte, e non solo perché c'è stata una morte che (per quanto forte e ben fatta) mi è sembrata un po' gratuita, ma soprattutto perché lascia un po' troppe cose in sospeso, pur chiudendo molto bene quantomeno l'arco della protagonista.

Anche se non è quello che definirei un capolavoro, rimane un manga veramente ottimo. Si può notare una fortissima influenza evangelioniana (nella caratterizzazione della protagonista, nelle scene di introspezione, in alcune scene del finale che sembrano sollevate di peso da The End of Evangelion), e oserei dire un che di Saikano, senza però alcun intento decostruttivo: è una storia horror e drammatica dall'inizio alla fine, molto pesante, a tratti deprimente, che riesce ad alternare sapientemente momenti di orrore (di molti tipi, peraltro: è abbastanza intelligente da non utilizzare più di una-due volte le stesse carte), momenti di introspezione, e persino momenti di tenerezza. Se vi piacciono le storie drammatiche con un'atmosfera horror, mi sento di consigliarlo, ma temo vi convenga partire dall’idea di scaricarlo perché essendo mezzo fuori stampa è abbastanza introvabile. Io ne avevo trovato per caso un volume in una fumetteria, scoprendo però che i volumi 1 e 4 erano fuori stampa e non disponibili. Dopo un'attenta opera di ricerca, ho trovato la serie completa in un mercatino al Torino Comics, ma non ho idea se da allora sia stato rimesso in stampa o meno. Nel caso, in Italia è edito da Planet Manga.

19 mag 2016

[Recensione] Painkiller




Indubbiamente, Il videogioco come medium artistico è cresciuto dai primi anni duemila in avanti, con sempre più opere sia indie che di massa che cercano di esplorare vari aspetti dell'umanità o di gestire trame sempre più ricche e complesse. Eppure, uno stile semplice e diretto come quello dei Quake e dei Serious Sam non ha ragione di morire o di estinguersi, proprio come i film d'azione non hanno avuto ragione di morire solo perché esistono Citizen Kane e Schindler's List, e Painkiller rappresenta uno degli apici di un modo di fare shooter che andrebbe, prima o poi, recuperato.

Gioco del 2004 dello studio "People Can Fly", Painkiller è uno sparatutto che si ispira all’epoca in cui le armi non avevano caricatori, la salute non si rigenerava automaticamente, un gioco non poteva dirsi completo se alla fine non dovevi uccidere o Hitler o Satana, la combo circle strafing+shotgun era la soluzione a tutti i problemi della vita, e in cui il termine “sparatutto” non era ancora stato stuprato da shooter “realistici” e “moderni” dalla morale politica discutibile incentrati principalmente su multiplayer online in cui si sfruttano errori di programmazione spacciati per l33t pr0 sk1llz. 

Painkiller sembra essere il figlio illegittimo di Doom. Deciso a dimostrarsi degno agli occhi del padre, visto che il figlio legittimo (Doom 3, uscito pochi mesi dopo) sembrava deciso a seguire piuttosto le orme di System Shock 2, Painkiller presenta un'azione frenetica ed ininterrotta, fatta di pura, catartica violenza. A essere corretti, un accenno di trama c’è: un tizio, doppiato da Cam Clarke in un periodo in cui non sapeva più recitare e in cui la sua voce assomigliava assurdamente a quella di Nolan North, muore e va in purgatorio, mentre la moglie va in paradiso; un angelo gli propone di uccidere i quattro generali dell'armata di Lucifero in cambio della redenzione e della possibilità di tornare dalla moglie, e il nostro protagonista si imbarca in un viaggio attraverso le terre dell’oltretomba eccetera eccetera. Ce ne frega il giusto: tutto quello che serve sapere è che si sterminano mostri. A CENTINAIA.

Nonostante la premessa quasi insultantemente semplice, il gioco trasuda una enorme creatività. Ogni livello è in un'ambientazione completamente diversa (rovine, manicomi abbandonati, basi militari, castelli, villaggi medievali, catacombe, persino Venezia per qualche motivo), con nemici assurdamente vari (fra cui spiccano internati che vagano con ancora l'elettroshock attaccato alla testa, e scaricatori di porto ubriachi che attaccano con sparachiodi e col proprio alito), ed entrambi sono molto ben curati. C'è molta attenzione anche nel design delle armi: si va dal Painkiller, praticamente il corrispettivo della motosega di Doom 2, a una selezione di armi che si impianta sul tipico assortimento dei giochi di questo genere ma dandogli ancora più grezzaggine, come una balestra che lancia pali delle dimensioni di un braccio che impalano i nemici contro i muri, o una chaingun-lanciarazzi. Tutto in questo gioco sa di "massacra tutto come se fossi in overdose di testosterone", compresa la colonna sonora (un heavy-speed metal generico, pieno di buoni riff anche se molto monotono... ma del resto, che altra musica vorresti mettere come sottofondo a cotanta insensata violenza a ritmo così serrato? Jazz? Orchestrale? Musica elettronica tunza e ripetitiva? Pfft, non scherziamo). 

Soddisfare alcuni "requisiti secondari" nel corso di ogni livello sblocca delle carte dei tarocchi, potenziamenti che danno boost e vantaggi di vario tipo, che diventano essenziali contro i boss. Affrontare questi ultimi richiede un po' di ragionamento e di trial-and-error, diventa essenziale non solo la scelta ma anche il tempismo d'uso dei tarocchi, ma per la maggior parte risultano fattibili senza eccessive difficoltà; tranne il quarto, che senza la carta dorata che rende invulnerabili per qualche secondo e la carta argentata che permette di utilizzare due volte le carte dorate è assolutamente invincibile, come si evince dal semplice fatto che, dopo ogni sezione, si è costretti ad una caduta che toglie metà vita, e di queste cadute ce ne sono tre. Anzi, diciamo pure che senza quella specifica combinazione di carte si tratterebbe di un boss assolutamente indecente e inaccettabile, che sarebbe ragione più che sufficiente per droppare il gioco con disgusto. In realtà, però, tutti i boss sono un po’ così: sembrano invincibili per due o tre tentativi, poi una volta scoperto il trucco per schivarne attacchi, e quindi l’azione necessaria per renderlo vulnerabile, si attivano i tarocchi al momento giusto e via di shotgun, tempo venti secondi ed è piallato. Il che mi sembra un modo lodevole ed efficace di impostare i boss di un videogioco d’azione.

Immagine da Gamefaqs.

Quello che non ha in complessità tematica o narrativa, viene compensato da stile invidiabile, sfida, e pura catarsi. Non è qualcosa che si possa sostituire o mettere a confronto con titoli più "moderni" e cinematografici, con gli open world, con i capolavori narrativi, eccetera, ma è un'alternativa che copre una nicchia che l'industria AAA non ha soddisfatto nelle ultime due generazioni di console.  

Dopo tanto tempo, mi mancava uno sparatutto vecchio stile, in cui lanciarsi a testa bassa con una motosega in mano, in cui aggrapparsi disperatamente all'ultimo HP circlestrafando attacco dopo attacco e nemico dopo nemico per trascinarsi fino all'ultimo checkpoint, mentre il bodycount raggiunge le tre cifre, mentre ogni arma è talmente possente che ad ogni colpo sembra di sfogare frustrazioni represse, senza obiettivi da completare, voci di comandanti che danno ordini, meccaniche di copertura, o alcunché di complesso dal punto di vista etico o narrativo: qui ci sei tu, qui c'è dove devi andare, qui in mezzo ci sono demoni infernali senza sentimenti e senza alcuna umanità, buona carneficina. Ogni tanto, ci vuole anche qualcosa di questo tipo; qualcosa che ricordi da cosa è nato il genere, prima che Spec Ops mi rovinasse per sempre la possibilità di godere di uno shooter militare senza sentirmi un mostro assassino. 

Unico difetto serio: si chiama Painkiller, e non ci sono i Judas Priest. Che spreco.
 

8 mag 2016

[Essay] Of Dao, Qi, the Force, and religious wars



One of my periodic Wiki Walks through the amazing Wookieepedia has led me to consider the many similarities between the concept of the Force in Star Wars (and Jedi and Sith views on it) and many philosophies and religions of Eastern Asia. Now, it is no secret that George Lucas drew heavily from the Chinese concepts of qi and dao[1] and from the Japanese swordfighting martial art of Kendō, and many have already pointed out the similarities between the old Jedi Order and Buddhist monks or between dao and the Force as concepts. Many interesting articles on the matter already exist on the internet; I would like however to try to further analyse the differences between the two, and to share a couple of reflections of mine on the subject.

Image taken from http://www.coffeewithkenobi.com/the-dao-of-star-wars-a-guest-blog-by-joshua-whitson/

In dao, the opposing principles of Yin and Yang aren’t given any ethical connotation of “good” and “evil”: each implies the other (in its symbol, the black portion contains a single white dot and vice versa), and both are necessary. In the Star Wars films, however, the Light Side and the Dark Side are clearly principles of Good and Evil, in a manner which may remind of Manichean or Zoroastrian ideas. Followers of the Dark Side see the Force as a means to an end, their own power and fulfilment («Through passion, I gain strength / Through strength, I gain power / Through power, I gain victory / Through victory, my chains are broken»[2]), while followers of the Light Side consider the Force its own end, and seek greater knowledge and inner emotional detachment in order to guide the Galaxy to peace. Indeed, most followers of the Light Side refer to it simply as “The Force”, and consider the Dark Side something entirely different: in this view, the Light Side is merely the Force’s natural state, a naturally flowing soothing river, and the Dark Side is its corrupted form, a burning fire of pure power, and keeping “balance” in the Force simply means eradicating the Dark Side. This is the most common view in the old Jedi Order, backed by the fact that its precursors did discover the Dark Side long after discovering the Force itself, and may be more akin to Buddhism than Daoism: avoidance of selfishness, extremisms, passion, personal possessions, and worldly cravings (taṇhā), while leading a monk-like life of compassion towards every living being in order to stop suffering (dukkha) and break out of the karmic cycle of death and rebirth (sasāra). The two philosophies are very far from being the same thing, of course, but some similarities do appear. 

However, this view was not universal: some, like Darth Krayt and perhaps Darth Plagueis, treat the two sides as semi-sentient entities with purposeful designs, each using their wielders as tools, despite being parts of a whole. In some Expanded Universe stories there are planets and races that are described as being naturally rich with the Dark Side (i.e. the Masassi, the Rakata, the original Sith), but even parts of the canon material seem to be close to this interpretation. Yoda and Luke fight and reject the "dark side" within themselves as if it were an enemy actively trying to subdue them, the "temptation of a devil", but they do not consider it a part that needs to exist for there to be balance. This view may be more similar to Zoroastrian or even Christian concepts.

Others, like the followers of the Unifying Force (including Darth Sidious), the followers of the unorthodox Potentium view, the Gray Jedi (like Jolee Bindo), and some members of the New Jedi Order (like Kyle Katarn and Mara Jade), view the Force as a neutral power that takes no sides: the potential for Dark Side and Light Side lay in the users, not in the Force itself. Hence why Jedi like Jolee Bindo and Kyle Katarn had no qualms about using Force powers traditionally associated with the Dark Side, and Mace Windu used an aggressive lightsaber style many deemed too close to the Dark Side, as they believed that only the intent of the user mattered. Some powers just happen to be of more use to, shall we say, "the light", while others were more frequently of use to "the dark". Despite some aspects of the Living Force view resembling Daoist thought[3], this might be the interpretation that gets closer to that of dao: an all-encompassing lifeforce that simply is, with no intent or ethic.

«The capacity for good or evil, like the Force itself, is in all living creatures. And belonging to the Jedi Order, or the Sith, or any group, won't change who you are at your core.»

In my opinion, the most comprehensive, convincing, and interesting interpretation of the Force lies just between the concepts of dao and qi: an all-encompassing energy that exists in and between every living and non-living thing in the universe, and that can be manipulated by individuals with varying degrees of prowess to cause many different effects for many different purposes (much like qi or ki or prana); that also exists as an all-encompassing non-sentient essence of the universe itself, the deepest nature of the Galaxy, that naturally moves towards its own balance and harmony; with no ethically distinct sides, or perhaps with the Dark and Light Side merely representing two different principles much like yin and yang (passion and compassion, life and intelligence, conflict and peace, creation and stability) that gain an ethical connotation only through the intent of their users.


How to explain, then, the countless conflicts between Jedi and Sith, Light and Dark, religious wars that have scarred the Galaxy for over 30.000 years? Perhaps this is, again, but the natural way in which the Force moves towards balance, as the wind naturally blows between a high air pressure area and a low air pressure area: whenever there is an umbalance in the Force, caused by the actions of Force users trying to force their will upon the universe, war is the physical effect of this natural movement towards a state of equilibrium. This is, again, pretty close to Daoist views. In my opinion, there is no reason to believe that the wars between Light Side and Dark Side followers are proof of the two sides actually being distinct entities with distinct intentions. 

The Force Wars, which took place over 25,000 years before the Battle of Yavin, were the first conflict between Light Side and Dark Side followers. Image taken from Wookieepedia.

After all, no religious war is ever truly only about religion: a religion isn’t something as simple as ticking the box of whichever god(s) one chooses to worship, and it is quite childish to believe so. Religion is the symbol and spearhead of a society’s (or an individual's) whole system of beliefs in the fields of ethics, human rights, philosophy, ecology, economy, history, science, progress, interests, culture, and so on; therefore a religious war is a clash between ways of life, ways of seeing and interpreting the universe, ways of deciding how civilisation should progress. A religious war is but one of the many, many ways humans display their arrogance and presumptuousness in identifying those who are similar to them, identifying who are “the others”, and believing that their way and only their way is right, sensible, rational, and ethical. Paradoxically, it’s the same arrogance and presumptuousness so proudly displayed by a very large part of the internet atheist community, and I find it so ironical that they don’t seem to realise how much their contempt for religion makes them similar to the religious extremists that they so despise, but that’s a rant for another time.

The difficulty one finds in pinning down any one real-world philosophy or religion as the equivalent of any single view of the Force, is testimony of both the immense potential for historical and philosophical depth in the Star Wars universe (a potential that is, in my opinion, unmatched by any fictional universe in modern history, save maybe for Tolkien’s Arda), and the sheer amount of works and authors that have tried to expand its spiritual aspect much beyond what little had transpired in the films. Even at the cost of producing pieces of fiction that contradict both each other and George Lucas’s original (and mostly unexpressed) vision.


[1] I’m using the Pinyin transliteration system for Chinese terms, therefore “dao” is to be pronounced with a [t] (voiceless unaspirated alveolar occlusive) despite the use of the graph “d”, and "qi" is to be pronounced with a [tɕʰ] (aspirated voiceless alveo-palatal affricate).

[2] Code of the Sith, as first appeared in Star Wars: Knights of the Old Republic; in-universe, it was written by Sorzus Syn in 6900 BBY. Conflict, the opposite of peace, is seen as a source of progress. One might note that some of the views expressed by the Sith throughout the ages are not too dissimilar from LaVeyan Satanism, and others bear a striking resemblance to principles contained in Hitler’s Mein Kampf.

[3] As far as I know, no orthodox view of the Force among the Jedi or Sith embraces the concept of wu wei (non-action or non-effort) that is so fundamental in Daoism: acting without forcing one’s will upon the universe and its natural course, but instead acting in accordance with its natural harmony. It’s the well-known concept of “being like water”: when one’s actions are in complete harmony with the way of things, they will come naturally and effortlessly). All Jedi taught instead that it was their duty to use the Force to protect others. However, the believers of the Potentium thought that the Dark Side was a “perversion” of the Force twisted by the selfish will of its users, and that the Jedi were not needed to fight evil as long as every action was conducted with moral intent; despite its ethical connotation, this view is closer to wu wei.