I Have No Mouth and I Must Scream è un adventure game punta-e-clicca del 1995, oggi disponibile su Steam e su GOG, basato su una eccellente storia breve di Harlan Ellison (che ha anche realizzato la sceneggiatura del gioco, e doppiato meravigliosamente il personaggio dei AM). All'epoca, questo titolo fu tra gli apripista di un modo più "letterario" di trattare l'horror e l'approfondimento psicologico dei personaggi nel medium videoludico, ma visto con occhi moderni non si può non notare come, dal punto di vista del gameplay, avesse molti dei difetti e delle ingenuità tipici degli adventure game dell'epoca.
Sono passati 109 anni da quanto AM, l'Allied Mastercomputer creato dagli americani per gestire una guerra globale troppo complessa per le capacità umane, ha acquisito autocoscienza e annientato l'intera umanità con l'eccezione di cinque persone, che per tutto questo tempo ha tenuto in vita e torturato fisicamente e psicologicamente. Ora AM, ormai divenuto praticamente una divinità, offre a ognuno dei cinque la possibilità di partecipare a quello che definisce "un gioco": uno psicodramma cucito su misura per le loro paure e i loro traumi psicologici, con la promessa di una via d’uscita dalla loro prigionia. Il giocatore prende i panni, a turno, di ognuno dei cinque protagonisti, conducendoli attraverso scenari cupi e opprimenti che toccano temi quali colpa, perdono, paranoia, stupro, pazzia, esperimenti disumani, e genocidio. Gorrister, Nimdok, Ellen, Ted e Benny affronteranno i propri demoni interiori in un viaggio fisico e mentale di enigmi, che li porterà anche a scoprire che il temuto supercomputer non è così invincibile come sembra.
La premessa è indubbiamente di altissimo livello, e le possibilità di espandere la magistrale storia di Ellison erano enormi. Tuttavia, non credo che siano state sfruttate completamente. Se gli scenari di Nimdok e di Gorrister sono molto efficaci e emotivamente coinvolgenti, e davvero meritano l'appellativo di "horror esistenziale", quello di Ted è un "unfocused mess", non si capisce quale trauma dovrebbe fargli affrontare o in che modo dovrebbe fargli superare la sua paranoia o il suo egocentrismo, e quelli di Ellen e Benny (giustappunto i più delicati) risultano decisamente troppo semplicistici nei loro sviluppi per non essere percepiti come uno spreco di un'ottima premessa; in particolare, ai due rispettivi protagonisti viene data una personalità decisamente incompatibile con quella che dovrebbe essere la loro storia. Insomma, ho i miei seri dubbi che Ellen sarebbe così sfacciata e "sassy" dopo CENTONOVE anni di tortura senza poter morire, e ho i miei seri dubbi sull'efficacia di una scena in cui la scelta di gameplay si riduce a "Vuoi affrontare le tue paure? Y/N". Il finale, però, in cui i cinque personaggi si "riuniscono", ha una qualità sorprendente in termini di simbolismo, elementi freudiani, dialoghi, scelte disponibili al giocatore, e modi diversi di risolvere gli enigmi, e porta a tre-quattro possibili finali (per ogni personaggio!) ugualmente intensi.
Il gameplay, purtroppo, è una nota dolente. Un aspetto interessante, al di là del solito giro di enigmi per il quale si va in giro a raccogliere tutto quello che non è inchiodato al suolo, a parlare con ogni personaggio ecc., è quello del "barometro spirituale": un riquadro in basso a sinistra che ci dice lo stato psicologico del protagonista, la sua autostima se vogliamo, influenzato dalle azioni e dalle scelte del giocatore; in base allo stato di quel barometro si potrà fallire lo scenario, oppure raggiungere un finale, diciamo, non ideale. Ellison disse in un'intervista che non è possibile "vincere" gli scenari nel senso classico del termine, si può solo perdere al picco della propria nobile umanità, oppure da codardi, da vermi. L'idea è interessantissima, e i dilemmi etici sono uno dei modi migliori di portare avanti questo tipo di concetto. Il problema? Il legame fra le azioni / scelte del giocatore e l'andamento del barometro è, per essere buoni, molto lasso. In che modo avrei dovuto immaginare che scegliere una canzone sul jukebox avrebbe avuto quell'effetto, o che avrei dovuto pulirmi con la tovaglia? Alcune azioni, poi, impediscono il raggiungimento del finale migliore non tanto perché non etiche o non nobili, ma semplicemente perché precludono situazioni successive che sono necessarie per "fare più punti" (vedi scenario di Gorrister o di Ted), in un modo arbitrario e impossibile da prevedere. Da un lato è interessante tornare indietro e ragionare se sia possibile superare un certo enigma in un modo migliore, più umano, ma dall'altro ci si sente presi in giro, perché solo occasionalmente la soluzione alternativa è frutto di una scelta diversa a livello etico.
Nello scenario di Nimdok, ad esempio, alcune opzioni di dialogo fondamentali appaiono solo se si è esaminato un poster (che diventa presto irraggiungibile), il cui contenuto (un numero) è visibile al giocatore anche senza usare il verbo "look at". Insomma, ci si può precludere un finale semplicemente per non aver letto ad alta voce un numero scritto in grande e pure concettualmente ovvio dato il contesto. Peraltro, dalle opzioni di dialogo che dipendono da quel poster dipende anche la possibilità, nella parte finale del gioco, di sbloccare un passaggio indispensabile per proseguire senza essere costretti a scegliere letteralmente l'opzione "type random numbers" sperando che il personaggio non muoia. Insomma, il finale migliore non solo di Nimdok ma dell'intero gioco è nascosto dietro un muro di trial-and-error, e questa non è mai una buona idea.
Da amante del genere adventure game, non ho trovato la qualità che si trova nelle opere degli anni d'oro della LucasArts e di Ron Gilbert: la maggior parte degli enigmi sono anti-intuitivi e terribilmente arbitrari, spesso non è nemmeno chiaro quello che si dovrebbe fare (ovvero, quello che si deve cercare di ottenere, lo scopo dell'enigma: con Gorrister, Benny, Ellen si può vagare a caso per delle mezz'ore), è fin troppo facile chiudersi in vicoli ciechi dai quali è impossibile uscire se non ricominciando, per procedere è spesso necessario fare backtracking in luoghi già visitati che nel frattempo sono cambiati in base a Dio solo sa quale trigger (a volte ho dovuto persino entrare e uscire ripetutamente dalla stessa stanza finché non è comparso un certo personaggio!), e c'è molto, troppo trial-and-error; una fonte di frustrazione, quest'ultima, che è peccato mortale in un genere che dovrebbe basarsi sulla logica e sul ragionamento.
In definitiva, I Have No Mouth and I Must Scream funziona discretamente bene, fa molte scelte coraggiose a livello narrativo, il design grafico e il doppiaggio sono di alto livello per l'epoca, e porta a casa una storia multisfaccettata e memorabile; la sua importanza storica nel medium è innegabile. Ma non riesce a sfruttare appieno le sue potenzialità di horror esistenziale e psicologico, e come gioco presenta molti difetti decisamente troppo frustranti. Mi sento di consigliarlo agli amanti degli adventure game classici o degli horror vecchio stile, o a coloro che vogliono esplorare la storia del medium e i primi tentativi nel territorio del deprimente e dello psicologico, ma non a un pubblico, per così dire, "generale". Se siete interessati, l'edizione di GOG.com include un pdf con la storia breve originale, che vale assolutamente la pena di leggere.